Tutti i racconti

1

Filiberto Ascani di Torresecca rientrò nella sauna del circolo sportivo della sua città natale, del quale era socio dalla prima adolescenza. Si arrampicò agilmente sulla panca più alta a destra della porta e si adagiò sul telo di spugna.
Nei suoi quasi sessant’anni di vita, Filiberto aveva visto saune di gran lunga più lussuose e più confortevoli, in alberghi e in case private, eppure, nelle rare occasioni in cui tornava a B., preferiva servirsi di quella, il cui aspetto dimesso, forse anche vagamente decadente, ben si addiceva all’atmosfera del circolo, destinato a inesorabile declino per l’assenza di nuovi soci. Non era la migliore sauna della città, ma era quella del suo club e il suo club, con i men che esigui sistemi di sicurezza, pareva offrire a Filiberto la possibilità di liberarsi per un po’ della presenza dei due guardaspalle: precauzione quotidiana indispensabile, ma sgradevole.
Dopo aver versato alcuni mestoli d’acqua sulle pietre arroventate, tornò a distendersi e chiuse gli occhi. Gli parve di potersi addormentare, ora che aveva mentalmente affrontato e risolto le ultime complicazioni nella trattativa per la fornitura di missili anticarro al governo di uno staterello africano che, quasi certamente, faceva da sponda verso qualche gruppo terroristico mediorientale. Niente di nuovo per lui: ben pochi tra i suoi clienti erano i destinatari effettivi delle merci.
Riaprì gli occhi avvertendo un flusso d’aria fresca percorrergli le gambe. Una figura scura si disegnava controluce nella cornice della porta. Le fiammate e gli sbuffi di fumo che vide gli esplosero nel torace, uno dopo l’altro. Ne contò quattro, poi la sua mente, forse per sottrarsi al dolore, smise di contare e cercò la ragione per cui qualcuno lo voleva morto. E stava per raggiungere lo scopo.
In quarant’anni di attività Filiberto non aveva mai commesso errori, non aveva infastidito nessuno dei suoi concorrenti, si era ben guardato dall’intromettersi in trattative avviate o in rapporti consolidati. Aveva addirittura rapporti amichevoli con alcuni di quelli che facevano il suo lavoro. Solo pochi giorni prima, a Montecarlo, aveva cenato con Arsenij, il Georgiano, nella suite che Filiberto occupava stabilmente all’Hotel De Paris.
“Fanculo!” disse ricordando quando Arsenij, completamente ubriaco, si era addormentato sul divano. Filiberto si era ritrovato da solo con la bionda amichetta del Georgiano, che tanto amichetta non era. Molto alta, con un maestoso seno comperato e splendide gambe forti generosamente esibite. Lei si era mostrata molto più che disponibile. In pochi minuti, dopo gesti inequivocabili, si era spogliata completamente. Filiberto, già molto riluttante, aveva rifiutato seccamente l’offerta: certe stravaganze esotiche non lo avevano mai interessato, anzi.
“Fanculo!” cercò di ripetere Filiberto, ma la voce era impastata dal sangue che risaliva la trachea e riempiva la gola. “Morire perché quello stronzo del Georgiano si vergogna delle sue perversioni.”


2

Ascanio Ascani di Torresecca volse ancora una volta lo sguardo sullo studio privato del lontano cugino, il notaio VittorDiego Ascani di Pietrastorta: una sala che compensava la modesta altezza del soffitto con la generosa ampiezza degli spazi e la luce che entrava abbondante dalle otto finestre a bifora, quattro affacciate sul parco del palazzo e quattro affacciate sulla strada.
Per Ascanio era più che sgradevole osservare le librerie che coprivano parte delle pareti, lasciando spazio ad alcuni grandi ritratti di uomini, tutti di profilo con il medesimo panorama come sfondo: le colline che sorgevano a sud di B. In ognuno dei quadri aveva particolare rilievo quella sulla cui sommità si ergeva la snella torre dalla quale, secondo la leggenda, era derivato il nome della famiglia.
Non c’era nulla nello studio che non ricordasse ad Ascanio il declino della sua famiglia e il quasi contemporaneo prosperare dei parenti che, pian piano e indirettamente, si erano appropriati dei beni venduti dagli Ascani di Torresecca negli ultimi duecento anni, incluso il palazzo che portava il loro nome.
A comperare il maestoso edificio, la cui costruzione risaliva, nelle parti più antiche, all’inizio del XII° secolo, era stato il nonno del nonno di VittorDiego, Vittorio Ascani di Pietrastorta, il quale aveva moltiplicato la ricchezza ereditata non soltanto grazie al fiuto per gli affari, ma anche alla disinvoltura con cui aveva perseguito il guadagno e alla non meno spietata determinazione ai tavoli da gioco.
“Mi stai ascoltando, Ascanio? - domandò il notaio con voce nasale e tono pedante - Ti pregherei di non distrarti.”
Ascanio si limitò a muovere la testa in segno di assenso e a sorridere. Come avrebbe voluto tornare ai giorni dell’adolescenza, quando, nelle rare occasioni in cui avevano giocato insieme, lui e Filiberto si erano spontaneamente coalizzati per infierire su quel parente che l’aspetto e i modi rendevano più antipatico di quanto già non fosse in conseguenza delle vicende familiari. Un desiderio fattosi ormai irrealizzabile, perché Filiberto sembrava aver deciso di stare, da morto, dalla parte di VittorDiego.
Tra tutti i notai cui avrebbe potuto affidare le sue ultime volontà, Filiberto aveva scelto proprio quello che, non poteva ignorarlo, avrebbe reso più sgradevole ad Ascanio il compito di esecutore di quelle volontà.
Una scelta dettata da sottile perfidia, un gesto di irrisione postuma per tutti i fratelli, ma in particolare per lui, tenuto ad applicare le innumerevoli puntigliose prescrizioni che VittorDiego elencava con evidente soddisfazione.
“VittorDiego, figlio di VittorCarlo, figlio di VittorBruno, figlio di VittorAlvise, figlio di Vittorio - ripeté dentro di sé come una cantilena Ascanio - Affarista e giocatore abile e fortunato, ma irrimediabilmente volgare Vittorio Ascani di Pietrastorta… Solo un uomo irrimediabilmente volgare può stabilire che tutti i discendenti debbano portare un nome in cui compaia per primo il suo e il secondo inizi con la medesima lettera in ogni generazione… Roba da allevatori di cani e di cavalli.”
Sorrise ancora al lontano cugino notaio, il quale stava elencando nuovamente le numerose proprietà di Filiberto, molto superiori a quanto Ascanio avesse previsto. Valeva senz’altro la pena di accettare l’incarico di esecutore, così facendo si sarebbe garantito la fetta più generosa di eredità, un privilegio che avrebbe reso più tollerabile il compito. Un privilegio che ancora stentava a spiegarsi: lui e Filiberto si erano irrimediabilmente allontanati dopo gli anni della prima adolescenza. La complicità che li aveva uniti nel tormentare VittorDiego era svanita, sostituita da rapporti sempre più rari e freddi.
Ascanio era soprattutto felice di ereditare la casa di Filiberto a Saint Tropez. L’aveva vista solo una volta e si era perdutamente innamorato del giardino, della piccola cala baciata dal sole e della costruzione immersa nel verde, invisibile dal mare e dalla strada, un autentico gioiello, opera di un geniale architetto italiano. Già pregustava il momento in cui ne avrebbe preso possesso, le ore che avrebbe trascorso nel vasto salotto ad anfiteatro, di cui ricordava ogni dettaglio, compreso quello rimasto inspiegabile: una grande nicchia ricavata nella parete diritta.
Ascanio fu riportato alla realtà dalle parole che VittorDiego stava dicendo. Tutto si spiega, pensò scrollando con amarezza la testa.
“Fanculo - si disse osservando l’espressione vagamente compiaciuta del cugino - Solo quello stronzo di Filiberto poteva decidere di essere imbalsamato e che la sua salma venisse conservata in una teca di vetro nella nicchia della casa di Saint Tropez…”


3

Ginevra Ascani di Torresecca fissò il volto della giovane donna che aveva aperto la porta e si rese conto di nascondere a stento il proprio stupore: era come se il tempo, all’improvviso, fosse volato all’indietro di due o tre decenni e lei si trovasse a fissare la propria immagine in uno specchio.
I grandi occhi verdi, il naso non piccolo, ma ben disegnato, gli zigomi evidenti, la bocca appena carnosa. Il tutto racchiuso dalla cornice di capelli castani pettinati semplicemente all’indietro.
La ragazza, osservò Ginevra, non sembrava aver notato la somiglianza tra loro. O, pensò immediatamente dopo, non ne era rimasta stupita perché per lei non si trattava di una sorpresa.
Con un sorriso la giovane donna si scostò per darle modo di entrare in quella che risultò una camera spoglia e priva di finestre, di un candore abbagliante, in cui gli unici oggetti erano un appendiabiti formato da contorti tubi di metallo cromato e un grande quadro astratto appoggiato al pavimento e contro la parete a destra della porta di entrata.
Ginevra si attardò a osservare per qualche istante le grandi macchie di colore che sembravano inseguirsi nel dipinto, con un gioco un po’ scontato di scomposizione e ricomposizione cromatica. Inutilmente cercò di identificare l’autore: la sua conoscenza dell’arte contemporanea era scarsa e superficiale. Diversamente da Filiberto, che aveva amato la musica, la letteratura e la pittura del XXI° secolo, lei aveva deciso che l’inizio del '900 segnava la fine di tutte le manifestazioni della creatività umana, o almeno di quelle degne di attenzione e di apprezzamento.
“Mi scusi… - disse volgendosi verso la ragazza e tendendole la mano - Buongiorno, Florence… Lei è Florence, vero?”
“Si, sono Florence, Madame Ascani - rispose la giovane con un sorriso - Vuole togliere il soprabito?”
“No… non subito - rispose Ginevra ricambiando il sorriso - Non pensavo facesse così freddo a Montecarlo in questa stagione… e poi il vento… mi sono gelata nel camminare dall’albergo a qui…”
“Mi dispiace… venga, le preparo un caffè caldo.”
Si diresse verso la sola altra porta della stanza. Ginevra la seguì ammirando la figura snella e il portamento elegante. Elementi che rafforzavano il sospetto affacciatosi in lei nel vedere Florence pochi istanti prima.
Il locale in cui entrarono era più grande dell’ingresso, assai luminoso grazie a due finestre: il luogo di lavoro dell’assistente di Filiberto. Florence continuò spedita e aprì un’altra porta, oltre la quale si trovarono in un vasto ufficio, anch’esso inondato di luce.
“Possiamo usare lo studio del principale - disse Florence mostrando a Ginevra un divano e due poltrone sul lato sinistro della stanza, il più lontano dalla scrivania - Le preparo immediatamente il caffè.”
Ginevra fu sollevata nel vederla allontanarsi, consapevole che, questa volta, se la ragazza l’avesse osservata, avrebbe notato quanto fosse rimasta sconcertata dall’uso della parola italiana principale. Certo, Florence l’aveva pronunciata con naturalezza, molto spontaneamente, però Ginevra vedeva quella parola un po’ desueta e fredda incunearsi, indebolendola, nella teoria che aveva sviluppato quando se l’era trovata di fronte nell’ingresso.
Pochi minuti più tardi, riscaldata dal caffè, Ginevra si alzò e sfilò il soprabito, consapevole che era arrivato il momento di affrontare gli argomenti per i quali aveva intrapreso il viaggio a Montecarlo.
Florence si alzò dalla poltrona su cui sedeva e si avvicinò alla scrivania per prendere due cartelle di cartone verde.
“Lei pensa di occuparsi della società, Madame? - chiese quando fu nuovamente seduta sulla poltrona di fronte a Ginevra - Ne aveva mai parlato con suo fratello? Ne sa qualcosa?”
“Quasi nulla… solo che si occupa di commercio di armi. Io non ho esperienza di commercio in generale e quello di armi, francamente, mi sembra del tutto inadatto a una donna della mia età e con le mie esperienze… Tuttavia credo sia giusto da parte mia considerare la cosa, anche perché non penso si tratti di una società vendibile facilmente…”
“Ha ragione, non sarebbe facile trovare un compratore e, se lo trovasse, difficilmente spunterebbe un buon prezzo… Mi scusi, la questione non mi riguarda… Ho preparato una relazione per illustrarle l’andamento degli affari e dei conti della società. Ecco, questa è la sua copia.”
Ginevra prese la cartella che le porgeva e l’aprì, mentre Florence faceva altrettanto con quella che aveva tenuto per sé e iniziava a parlare.
Dopo neppure una decina di minuti, Ginevra si rese conto di non riuscire a nascondere l’insofferenza per quello che la giovane donna andava dicendole. Pur apprezzando il modo chiaro e conciso con cui Florence illustrava le vicende della società, Ginevra non era interessata. C’era qualcosa che le premeva di più, molto di più proprio perché nel tempo appena trascorso la sua teoria aveva ripreso vigore e lei si era convinta di avere di fronte la persona giusta per realizzare il desiderio da cui si sentiva nuovamente dominata.
“La sto annoiando, Madame?”
“No, tutt’altro, Florence, apprezzo la sua semplicità e la sua sintesi. Credo, però, che dovremmo parlare di altro…”
La giovane non disse nulla, limitandosi a fissare con espressione divenuta attenta, addirittura ansiosa, la donna in cui vedeva se stessa di lì a vent’anni.
“Si, Florence, è un altro l’argomento di cui voglio parlare con te e che, ne sono certa, anche a te interessa più di ogni cosa - Ginevra le sorrise affettuosamente, poi si fece seria - Mettiamoci al lavoro, dobbiamo farla pagare cara a chi ha fatto uccidere mio fratello gemello, tuo padre.”


4

Padre Gilberto Ascani di Torresecca, S.I., si avvicinò alla bassa finestra camminando lentamente sulle gambe secche, guidato dal desiderio di osservare meglio il ristretto lembo del mondo sul quale, da anni, affacciava il suo sguardo.
Guardò per alcuni minuti le luci di Granada in lontananza, riflesse dall’acqua del lago e rese più tremolanti dalle irregolarità nella superficie del vetro. La città distava pochi chilometri, ma per lui la vita scorreva solo nello spazio angusto della radura in cui sorgeva il minuscolo villaggio di contadini, poche baracche fatte di legno, terra secca e foglie, adagiate sul pendio, là dove si faceva più ripido e si avvicinava alla sommità del Mombacho.
In certi momenti, come quella sera, la visione anche di quella modesta distesa di bagliori radi e deformati, resi più incerti e mutevoli dai fremiti irregolari del suo corpo, gli procurava ancora un senso di tenue, ma irrimediabile malinconia
A fatica Padre Gilberto percorse a ritroso il breve tragitto compiuto poco prima e tornò ad adagiarsi sull'amaca dove trascorreva gran parte delle giornate, disteso sul fianco sinistro, così da poter guardare di tanto in tanto il panorama ristretto racchiuso dalla cornice della finestra.
Si coprì con la pesante coperta di lana ruvida e grezza e riprese il mozzicone di sigaro posato poco prima sul piatto scheggiato che usava come posacenere. Lo ravvivò con un paio di tirate lunghe e lente, osservando la brace allargarsi rapidamente sulla punta, al di sotto della poca cenere bianca rimasta quando l'aveva scosso delicatamente prima di scendere dal suo giaciglio per guardare dalla finestra.
Per qualche istante ripensò ai sigari grossolani e mediocri che aveva fumato all'epoca del suo arrivo, ben diversi da quelli del presente, tanto più belli e ricchi di aromi e di vigore.
All’inizio degli anni 80 i produttori avevano lavorato in modo primitivo: quasi tutti contadini che avevano coltivato piante di modesta qualità in maniera arcaica e avevano riservato non meno scarsa cura alla fermentazione e alla maturazione delle foglie.
Allora, appena arrivato, Padre Gilberto aveva abitato in città e aveva considerato temporaneo il suo soggiorno nella piccola diocesi nicaraguense. E tale aveva sperato che sarebbe stato anche il consumo dei sigari aspri e sghembi.
Allora lo aveva considerato un passaggio nella carriera ecclesiastica, scelta a vent'anni, quando il cuore gli si era gelato nel petto per una delusione d'amore e il seminario gli era parso preferibile all'accademia militare verso la quale lo avrebbe indirizzato lo zio omonimo, colonnello di cavalleria, che aveva riversato su di lui le speranze frustrate dal ventre sterile della moglie.
Una divisa era parsa il solo abito in cui avvolgere quel freddo corpo morto che gli aveva lasciato Leonora. E l'avrebbe indossata comunque, anche se fosse rimasto indifferente alle prospettive di gloria che, per entrambe le alternative, gli erano state indicate in famiglia. Riusciva ancora a sorridere le rare volte in cui gli accadeva di ripensare a se stesso nei giorni della decisione, quando si era ritrovato a paragonarsi a Gertrude.
Poi il suo sguardo si era posato su Amparo, figlia di un contadino i cui sigari Padre Gilberto aveva imparato a prediligere tra tutti gli altri. E mentre la sua mente si era smarrita e il suo corpo si era riscaldato, il paese era stato travolto dalla guerra tra Sandinisti e Contras.
Amparo, neppure ventenne, si era unita al FSLN e lui aveva deciso di seguirla, per non rinunciare alle promesse di quegli occhi neri e dolci e di quel nome che assicurava protezione. Tra le sue gambe aveva cercato Leonora, ma aveva ritrovato se stesso e ottenuto risposte a domande che non si era posto e perduto Padre Gilberto.
Alla fine della guerra si era ritrovato senza Amparo, morta proprio in uno degli ultimi combattimenti, e privo anche del rifugio della tonaca, non già perché qualcuno si fosse preso la briga di ridurlo allo stato laicale, ma perché aveva capito che le uniformi non servono a chi le indossa e lui aveva deciso di non indossarne mai più nessuna.
Aveva abbandonato gli uomini e le donne con cui lui e Amparo avevano diviso otto anni di vita e, senza neppure festeggiare la vittoria nella capitale, era tornato a Granada. Per poche settimane aveva provato a vivere con la famiglia della sua compagna, poi, una mattina aveva raccolto le sue poche cose e si era diretto verso il vulcano, arrampicando senza fretta fino a raggiungere la cima.
Aveva dormito sulla vetta diverse notti, lasciandosi inondare dalla pioggia di maggio, sperando che lavasse via la scorza da cui si era sentito avvolgere nel momento in cui l’ultimo fiotto di sangue era sgorgato dalla ferita che aveva ucciso Amparo. Si era risvegliato ogni mattina sentendo quell’involucro più spesso e opprimente.
Dalla vetta era sceso dopo oltre venti giorni, quando aveva deciso di raggiungere il piccolo villaggio accanto al quale era passato durante l’ascensione, l’unica destinazione concepibile per il suo animo inaridito. Gli abitanti lo avevano accolto senza stupore, quasi con indifferenza, ma lo avevano aiutato a costruire la baracca in cui aveva deciso di confinarsi e si erano rifiutati, suo malgrado, che pretendesse anche da loro di essere dimenticato.
Gli anni erano passati, alcuni libri si erano accumulati sugli scaffali che lui stesso aveva costruito e nelle due pentole di coccio aveva cucinato le verdure coltivate nell’orto e la carne dei polli e dei conigli allevati nei due piccoli recinti accanto alla baracca e quello che, di tanto in tanto e con inspiegabile generosità, gli veniva donato, come i sigari.
Pian piano la pace era scivolata sotto l’involucro, diffondendosi quasi completamente dentro di lui.


5

Aurora Ascani di Torresecca aprì la porta di casa e entrò lasciandosi avvolgere dal calore pur modesto prodotto dal vecchio impianto installato agli inizi degli anni Settanta nel rustico adagiato di fronte al podere che aveva acquistato quando era tornata in Italia nel 2007.
Non fu necessario invitare i cani a seguirla: Daisy e Pezza, le due femmine, si erano già intrufolate tra le sue gambe e il battente, mentre Astro, il maschio, si affrettava a seguirle, timoroso di restare chiuso fuori, nella spessa nebbia che non voleva disperdersi nonostante il sole fosse ormai alto nel cielo e cercasse di aprirsi un varco nella candida coltre pesante.
Tolto il giaccone imbottito liso e macchiato, Aurora si diresse verso lo studio, oltre la cui grande vetrata si stendeva, indistinta, la campagna piatta.
Seduta alla scrivania, riattivò il computer e scaricò la posta elettronica, scorse i messaggi in entrata, nessuno dei quali meritò attenzione e, dopo aver dato un’occhiata distratta all’edizione on line di un paio di quotidiani, aprì il capiente disco esterno in cui aveva pazientemente travasato cd e vinili collezionati nel tempo e cercò la cartella di John Coltrane. Percorrendo nella nebbia la capezzagna posta al centro della proprietà, tra le riflessioni legate alla morte recente di Filiberto, si era insinuato il ricordo di un brano di straordinaria bellezza, che non ascoltava da tempo: Stellar Regions.
Avviò la riproduzione attraverso l’impianto alta fedeltà collegato al computer e si lasciò afferrare dalla splendida ripetizione di note iniziali, un lamento ossessivo, che poi si dilatava e si faceva più cupo e agitato, prima di ritrovare una parvenza di quiete verso la fine, un’illusione di pace.
Come accadeva spesso quando, come allora, ritrovava dopo alcuni mesi la bellezza inesauribile di un brano come Stellar Regions, Aurora lo riascoltò ancora e poi ancora senza stancarsi, ritrovando anzi nuove ragioni per riprodurlo altre volte.
Sotto il grande tavolo i cani si muovevano appena e il suono delle loro lingue che ripulivano le zampe dalle tracce di terra lasciate dalla passeggiata lo udiva a stento, sovrastato com’era dal sassofono di Coltrane ad alto volume.
Dopo averlo ascoltato una decina di volte, Aurora interruppe la riproduzione e cercò la versione precedente, intitolata Venus, registrata oltre dieci anni prima da Coltrane con il solo accompagnamento della batteria di Rashied Ali. Forse aveva avuto ragione Alice, la moglie di Coltrane, a dare un titolo diverso all’esecuzione in quartetto, cui lei stessa aveva preso parte al piano, quando aveva pubblicato l’album dopo la morte del marito. Il flusso dell’improvvisazione le rendeva in qualche modo diverse, anche se seguivano un percorso simile.
Tornò ad ascoltare Stellar Regions, più essenziale nella durata, più incisiva e più ricca, per la presenza anche del piano e del basso.
Aurora ignorava anche i minimi rudimenti della composizione e non aveva mai neppure tentato di suonare uno strumento. Di tanto in tanto le accadeva di provare un momentaneo rimpianto per questo, ma poi si diceva che ciò non le impediva di apprezzare interamente, a suo modo, la bellezza della musica, di quasi tutta la musica.
Chiuse gli occhi mentre il sassofono di Coltrane ripercorreva, alla fine del brano, il tema iniziale, dilatandolo accompagnato dalle note del piano. Si chiese il perché dei titoli diversi delle due versioni, entrambi apparentemente inadatti. Non si spiegava come la dea della Bellezza o una porzione del Cosmo potessero collegarsi a quelle note a tratti disperate, prigioniere e ansiose di liberarsi da se stesse.
Forse, si disse, sbagliava lei nel guardare ai due pezzi di Coltrane da un punto di vista viziato, presumendo che la bellezza e l’universo dovessero offrire sempre all’uomo serenità e appagamento. Forse, invece, lo mettevano ancor più brutalmente di fronte ai suoi dubbi e ai suoi tormenti.
Cercò con la mano il corpo di uno dei cani tra le sue gambe e l’accarezzò a lungo, dolcemente, sentendone il calore diffondersi in lei. Come sempre.


6

Ascanio Ascani di Torresecca distolse lo sguardo dal proprio pollice sinistro e tornò a fissare la teca contenente la salma di Filiberto. Non solo si era abituato alla vista del fratello imbalsamato, ma aveva anche iniziato a trascorre molto tempo nel salone della villa, seduto sul gradino più alto dell’anfiteatro. Leggeva, ma sollevava spesso gli occhi per osservare il corpo racchiuso dal cristallo e illuminato da un sofisticato sistema di luci a led che, regolato da un computer, manteneva costante l’illuminazione, così che in ogni ora del giorno fosse possibile vedere perfettamente e nello stesso modo il cadavere adagiato su un sottile materasso foderato di velluto azzurro pallido.
L’idea dell’impianto di illuminazione era venuta ad Ascanio pochi giorni dopo aver conosciuto le volontà di Filiberto, quando, tornato nello studio di VittorDiego, aveva sottoscritto l’atto con cui aveva accettato di diventare esecutore testamentario del fratello.
Lo studio della documentazione predisposta dal cugino notaio gli aveva consentito di capire l’entità della sua quota di eredità e ciò lo aveva non solo indotto a superare le residue perplessità riguardo all’incarico, ma anche convinto a dare la migliore collocazione possibile alla salma di Filiberto. Un gesto di riconoscenza che non lo inorgogliva poi tanto, perché lo sapeva dettato dalla generosità del fratello, certo non casuale.
Tornò a fissare il proprio pollice sinistro, concentrando lo sguardo sull’avvallamento che percorreva l’unghia esattamente nel tratto centrale, da una parte all’altra, appena oltre la mezzaluna più chiara. Non si spiegava quella deformazione. Era accaduto altre volte che l’unghia presentasse una simile imperfezione nella crescita, ma sempre in conseguenza di uno schiacciamento, tanto che, in corrispondenza della convessità, si vedeva la macchia scura dell’ematoma sottostante.
Inclinò la testa prima a sinistra poi a destra per osservare come l’aspetto cambiasse a seconda del punto di vista.
“Tu cosa ne pensi, Filiberto?”
Pose la domanda parlando a voce alta, come ormai faceva sovente quando si rivolgeva al fratello. Avevano ricominciato a dialogare assiduamente, anche più di quanto avessero fatto negli anni cui il loro legame era stato strettissimo. Ascanio ne sentiva il bisogno e si andava convincendo che anche a Filiberto piacesse la loro ritrovata confidenza.
Ascanio aveva preso possesso della villa oltre due mesi dopo la morte del fratello e aveva fatto arrivare la teca di cristallo realizzata da un amico artigiano di Murano, retribuito generosamente per mettere a frutto la sua competenza in un’opera che poco aveva a che fare con le sue produzioni abituali. Limpidissimo, di una trasparenza perfettamente incolore, privo della minima imperfezione, il sarcofago era rimasto vuoto per pochi giorni, sino a quando Ginevra, che si era offerta di occuparsi della traslazione della salma, era giunta a Saint Tropez precedendo di ventiquattro ore il carro funebre in arrivo da B.
Ginevra aveva portato con sé una giovane donna che Ascanio aveva compreso essere sua nipote soltanto da poche frasi allusive della sorella, che, tuttavia, non aveva mai espressamente detto che Florence era figlia di Filiberto. Gli atteggiamenti reciproci e la confidenza tra loro, però, avevano confermato ciò che le allusioni avevano fatto intendere.
Durante la cena, che Ascanio aveva preparato nella cucina sfarzosa e servito nella sala da pranzo arredata con gelida semplicità, Ginevra lo aveva informato che aveva fatto confezionare un materasso sul quale adagiare l’indomani la salma di Filiberto.
Ascanio aveva apprezzato l’idea, rendendosi conto solo allora di essersi completamente dimenticato di quell’aspetto, concentrandosi esclusivamente sulle luci.
“Grazie, Ginevra - le aveva detto con sincera e infantile riconoscenza - Io a questo non avevo pensato…”
“Lo avevo previsto - era stata la risposta accompagnata da un sorriso malizioso, subito svanito per lasciar posto a un’espressione seria e fredda - Tu non avresti mai pensato di far riposare Filiberto sulle ceneri del suo assassino.”


7

Aurora Ascani di Torresecca sospinse lentamente la sghemba porta di legno percorsa da lunghe fessure tra le assi male accostate. Prima di entrare si girò per controllare che i cani, legati a un paletto a pochi passi dalla baracca di Gilberto, fossero tranquilli. Vederli tutti e tre distesi a terra, visibilmente stanchi per la salita e per il caldo afoso, la rassicurò e la indusse a muovere due passi all’interno della modesta dimora del fratello.
Gilberto sedeva sull’amaca, in una posizione che non gli era abituale, perché mai era accaduto che qualcuno bussasse all’uscio senza essersi annunciato. Gli abitanti del villaggio, prima ancora di battere sulla porta, dicevano il loro nome, evitando così di coglierlo di sorpresa.
La luce intensa del giorno gli impediva di riconoscere la persona che restava ferma e non parlava. Pian piano, a fatica, qualcosa emerse nella memoria, ma non poteva credere di trovarsi di fronte alla sorella più giovane, di cui pure gli sembrava di riconoscere la postura decisa più ancora che le forme.
“Sì, Gilberto… Sono Aurora - disse lei con voce dolce, ma ferma, quasi volesse impedire a qualsiasi emozione di interferire in quell’incontro pianificato con cura -. Posso entrare?”
“Sei già entrata - replicò lui senza riuscire a dare alle sue parole lo stesso tono - C’è una sedia… da qualche parte…”
Aurora chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò al fratello, ignorando l’indicazione vaga della mano tremante.
Ferma a meno di un metro da lui, osservò il volto scavato, di un pallore spettrale, al quale neppure i luminosi occhi azzurri riuscivano a dare vitalità. Non poté evitare di pensare che rassomigliava in maniera impressionante a quello di Filiberto, adagiato nella bara di cristallo, visto pochi giorni prima di imbarcarsi sul panfilo a bordo del quale aveva attraversato l’Atlantico per raggiungere il Nicaragua.
“Non sei in gran forma - osservò ancora con voce quasi indifferente - Vivi sempre chiuso qui dentro?”
“Esco solo per occuparmi dell’orto e degli animali, sempre la mattina presto o nel tardo pomeriggio… perché dovrei stare fuori? Dentro posso leggere e guardare fuori dalla finestra.”
“Cosa stai leggendo?”
“Sei venuta fin qui per sapere cosa leggo?”
Aurora scosse la testa cercando di impedirsi di sorridere. Sentire la domanda posta con tono brusco e secco la rassicurava: restava qualcosa dell’altezzosa scontrosità del fratello in quell’uomo smunto, trascurato, apparentemente vinto.
“Sigari - disse porgendo la scatola acquistata la sera prima nella manifattura di cui le aveva parlato un amico -. Credo siano i migliori che si producono a Granada.”
“Grazie - lui la prese con la mano e la osservò per pochi istanti, posandola subito sul tavolino -. Hanno imparato a farli davvero bene negli ultimi anni… Ho sentito dire che c’entra un italiano.”
“Infatti… Si chiama Sgroi e dicono che stia facendo un ottimo lavoro.”
“Non sono molti gli italiani che hanno avuto successo da queste parti.”
“Lui lo avrà cercato con un po’ di determinazione e di convinzione.”
“Non mi serve il tuo aiuto per sapere che non ho concluso gran che, Aurora - disse Gilberto alzandosi faticosamente in piedi -. Vuoi bere qualcosa? Ho acqua relativamente fresca e posso farti un caffè o un the…”
“Un caffè, grazie.”
Aurora lo osservò mentre si muoveva piano dall’amaca al fornello a gas posato su un mobile di legno grezzo. Pur preparata, l’aspetto di Gilberto e la miseria del luogo in cui viveva la turbavano profondamente, insinuando un senso di doloroso sconforto nell’indifferenza che si era imposta di provare nel momento in cui, all’improvviso, aveva sentito il bisogno di recarsi in Nicaragua per incontrarlo.
Lo seguì e lo osservò mentre metteva la polvere in una vecchia Bialetti priva del manico. Non poté evitare di chiedersi come fosse arrivata fin lì quella caffettiera, poi si concentrò su un argomento più importante e più urgente.
“Hai un recipiente in cui possa dar da bere ai cani?”
“I cani?”
“Sono venuti con me… i miei tre cani…”
“Falli entrare, moriranno di caldo lì fuori al sole! Perché li hai lasciati fuori?”
Lei si strinse nelle spalle, senza riuscire a nascondere la mortificazione suscitata da quel rimprovero giustificato e inaspettato.
Prima di uscire, timidamente, sfiorò con la punta delle dita la spalla sinistra di Gilberto e sentì un tenue, ma piacevole tepore sotto la fibra lisa della camicia che copriva il corpo ossuto.


8

Florence Ascani di Torresecca approfittò volentieri della voglia di giocare di Pezza, che sembrava non stancarsi mai di correre attorno alle sue gambe e di saltare cercando di avvicinare il muso macchiato di bianco al suo volto per leccarlo.
Accovacciata, mentre la giovane meticcia manifestava quasi con prepotenza il suo affetto sbocciato da poche ore, Florence riusciva ancora a osservare lo scorcio che si apriva oltre i filari di vite inondati dal sole dei primi giorni di settembre: davanti a lei, poco più in basso, la piccola chiesa sulla sommità di un rilievo oltre al quale, incorniciata da due colli, si stendeva la pianura velata dalla foschia persistente del tardo mattino.
A fatica, respingendo con garbo Pezza, si mise in piedi e si affrettò sulla ripida salita per raggiungere Aurora e Ginevra che camminavano una accanto all’altra, precedute dagli altri due cani di quella che Florence ancora stentava a considerare una zia, una delle componenti della numerosa famiglia di cui era entrata a far parte ufficialmente dopo l’adozione da parte di Ginevra.
Regolò il passo così da potersi avvicinare a loro potendo osservarle ancora per qualche istante e familiarizzarsi con i movimenti, i gesti, le forme di Aurora, così diversa dalla sorella.
Le procurava un senso di misteriosa emozione poter conoscere meglio quella donna dai modi sbrigativi, decisi, però eleganti, dai quali spesso traspariva una dolcezza inaspettata. Il passare delle ore e dei giorni avrebbe forse fatto svanire quel sentimento, ma Florence pensava che non avrebbe mai smesso di essere stupita dalle piacevoli contraddizioni di Aurora.
Quando fu accanto a loro, si fermò nuovamente e si voltò a guardare il panorama, ansiosa di cogliere nuovi dettagli di quel lembo dei colli di cui le aveva parlato spesso Filiberto, che solo nel descriverle quei luoghi aveva manifestato un legame con i territori della sua infanzia. Un legame profondo, vissuto anche attraverso la passione per i vini prodotti con le uve il cui profumo riempiva le narici di Florence, inebriandola soprattutto di ricordi di quel padre che l’aveva voluta accanto a sé senza mai formalizzare fino in fondo il loro rapporto. Vicini, ma mai realmente intimi. L’uno accanto all’altra quasi ogni giorno nell’ufficio di Montecarlo e in rari viaggi di lavoro, lei e Filiberto non si erano mai concessi nulla più di qualche momentanea e timida affettuosità.
Lei non ne aveva sofferto. Dopo la morte di sua madre, l’uomo che prima aveva visto spesso e intuito essere suo padre, si era preso cura di lei, le aveva fatto completare gli studi prima in un collegio svizzero e successivamente in una piccola, ma prestigiosa università americana, accogliendola infine come assistente nella società di Montecarlo.
Poi la morte assurda e violenta, che lei e Ginevra avevano saputo vendicare senza lasciare traccia, un ricordo non meno crudo e difficile da sopportare, di cui era consapevole di non potersi mai liberare.
“Ho trovato una nipote, ma a quanto pare ho perduto uno dei miei cani - commentò Aurora ridendo quando le ebbe raggiunte - Ti piace questo posto, Florence?”
“Moltissimo - rispose - E’ meraviglioso… non smetterei di guardare la pianura che si apre tra i colli e di respirare il profumo dell’uva matura. Adesso capisco perché Filiberto amava questi luoghi e i vini di Franco.”
“Amava anche quelli di tanti altri produttori…”
“E’ vero, ma non sai quante volte mi è capitato di vederlo discutere con i sommelier di alcuni dei più celebri ristoranti del mondo perché non offrivano i vini prodotti qui.”
“Posso immaginare… - Aurora rise ancora allegramente - Mi sembra di sentirlo… sapeva essere insistente al punto da esasperare l’interlocutore.”
“E’ proprio così, però, quando siamo tornati in qualcuno di quei ristoranti e ha trovato i vini di qui nella carta, l’ho visto felice e ha manifestato gratitudine e soddisfazione quasi altrettanto insistentemente.”
“Ricompensava con grande generosità chi condivideva le sue opinioni… credo che nulla lo gratificasse quanto scoprire di essere riuscito a convincere qualcuno delle sue ragioni.”
Florence annuì, cercando di non lasciare che la commozione prendesse il sopravvento e incrinasse l’atmosfera serena e distesa di quella passeggiata tra le vigne.
Si abbassò per accarezzare Pezza, così da nascondere il velo tenue del pianto. Fece scivolare gli occhiali da sole da sopra la fronte e si raddrizzò, riprendendo a camminare tra Aurora e Ginevra.
Proseguirono in silenzio, come se tutte e tre dovessero rimettere ordine nelle proprie emozioni e attenuare il peso dei ricordi evocati dal breve dialogo.
Raggiunsero il punto in cui la strada sterrata piegava bruscamente a destra e si trasformava in un sentiero stretto e l’ultimo filare di vite si accostava alla boscaglia di robinie.
Florence osservò i grappoli ormai pronti per essere raccolti dagli operai che aveva visto impegnati nella vendemmia poco più sotto. Le ritornarono in mente le descrizioni di Filiberto e fu sicura che si trattasse di Merlot. Quello che Franco trasformava in un meraviglioso vino intenso, racchiuso in una bottiglia scura contrassegnata da una semplice e perciò elegante etichetta nera con tocchi di rosso.


9

Aurora Ascani di Torresecca aprì una dopo l’altra le tre diverse scatolette di cibo per cani. Aiutandosi con un cucchiaio ne fece scendere il contenuto nelle ciotole di metallo di misure differenti; dopo aver aggiunto un po’ d’acqua in tutte, sbriciolò una pastiglia per il fegato nel cibo destinato a Pezza e una per le articolazioni in quello di Astro. Aggiunse infine le crocchette, già pesate in precedenza, quindi dispose i tre recipienti accanto a quelli dell’acqua sull’ampia stuoia di plastica che copriva il pavimento nell’angolo della cucina riservato ai cani.
La prima a immergere il muso nel suo pasto fu Daisy, la più giovane e più vivace, quella che non rinunciava mai a rincorrere una lepre per il puro divertimento di misurarsi in velocità con essa. Meticcia di pastore australiano, a cinque anni rivelava tutta la vitalità ereditata dalla razza instancabile di cui possedeva il manto blue merle e la conformazione, ma non la dimensione, risultando più piccola ed esile rispetto agli standard stabiliti.
Anche Pezza e Astro iniziarono a mangiare sotto lo sguardo di Aurora, che sorrise compiaciuta nel vederli consumare il proprio pasto uno accanto all’altro con calma, senza darsi fastidio e senza mai tentare di rubarsi un boccone. Non era stato difficile abituarli a convivere. Pezza, la prima arrivata, aveva trasmesso ai due che si erano aggiunti sia la propria compostezza innata sia il rispetto delle regole, frutto dell’educazione impartitale dolcemente da Aurora.
Dopo essersi attardata ancora qualche istante a osservarli, Aurora uscì dalla cucina e raggiunse l’impianto stereofonico del soggiorno, nel quale inserì il CD “Ragas And Sagas” di Jan Garbarek e Nusrat Fateh Ali Khan. Dopo aver avviato la riproduzione e alzato leggermente il volume, tornò in cucina e si avvicinò alla grande porta finestra dalla quale poteva osservare la sua proprietà, sulla quale si erano già allungate le ombre della sera.
Salvo la soia, di cui distingueva in lontananza le piante morte che andavano perdendo le ultime foglie, tutte le colture erano state raccolte e, a seconda della provenienza del vento, le arrivavano alle narici i diversi odori dei campi su cui restavano ormai solo le tracce di granoturco e barbabietole e, più lontane e ormai arse dal sole di luglio e agosto, le stoppie di frumento.
Aurora avrebbe saputo capire anche a occhi chiusi se si trovava accanto a un appezzamento in cui era stato coltivato mais o grano o un qualsiasi altro seminativo entrato nella tradizione dell’agricoltura di quell’area fertile dell’Italia settentrionale, ai margini meridionali della provincia di B.
Ben presto, a quegli odori familiari, si sarebbe sostituto quello, altrettanto noto, ma unico e pervasivo, della terra arata. Già il giorno seguente, con il trattore azzurro e il quadrivomere verde, Gabriele avrebbe iniziato a percorrere gli appezzamenti, riportando alla luce il colore bruno rossastro della terra, ora celato dai residui lasciati dai raccolti.
Abbassò lentamente le palpebre e interruppe la contemplazione della campagna, concentrandosi sulle note del cd.
Pur consapevole che non era vero, le piaceva immaginare Nusrat Fateh Ali Khan che, bambino, percorreva le valli tra le montagne del Pakistan e cantava le canzoni apprese dal padre e dagli zii. In realtà era nato a Faisalabad, una delle città principali del suo paese, non così vicina alle catene montuose, eppure Aurora si divertiva a fantasticare sul fanciullo un po’ grassoccio che sarebbe diventato un cantante famoso nel mondo, capace di far amare quasi ovunque la sua voce potente e i ritmi intensi della musica pakistana. Immaginava la voce ancora infantile diffondersi tra le rocce, riprodursi in eco sempre diverse, mescolarsi al gorgoglio di una cascata, spegnersi tra gli alberi di una foresta.
Pensò alla vita di Nusrat, esauritasi ancor prima che raggiungesse in cinquant’anni, vinta dalla malattia al fegato e ai reni, durante il viaggio verso un trapianto cui non riuscì mai a sottoporsi.
Aurora provava sempre una rabbia sorda di fronte a destini come quelli del cantante pakistano. Le pareva un’ingiustizia che l’umanità fosse privata dalla bellezza prodotta da una voce, da uno strumento musicale, da un pennello, da parole accostate mirabilmente. Quando ciò accadeva troppo presto, come nel caso di Nusrat e di tanti altri, le sembrava un torto intollerabile. Anche quando la morte arrivava a causa delle intemperanze delle vittime, com’era accaduto a tanti interpreti del jazz e non solo.
Chiuse gli occhi e iniziò a muoversi appena, seguendo le note morbide di Raga I, il primo brano dell’album, prossimo alla conclusione. Si ritrovò a pensare con rammarico al fatto di non aver mai visitato il paese natale di Nusrat Fateh Ali Khan. Ormai le sarebbe stato praticamente impossibile farlo, poiché da quindici anni non saliva più a bordo di un aeroplano.
Erano trascorsi esattamente dieci giorni dal quindicesimo anniversario del giorno che Aurora considerava non solo causa di quella e di altre svolte nella propria vita, ma ancor più dei solchi profondi che si erano aperti nel mondo. E le affinità e le condivisioni che Garbarek e Nusrat avevano saputo favorire con tanta maestria e procurando tanta felicità, alcuni avevano gravemente incrinato, cercando di separare con la violenza e con l’ottusità ciò che la curiosità e la fertilità della mente umana avevano unito.


P.S. Il racconto contiene un errore di cui mi sono reso conto poco fa. Mi sono fidato della memoria e ho sbagliato: Ragas and Sagas è frutto della collaborazione tra Jan Garbarek e Ustad Fateh Ali Khan, altra grande voce del Pakistan. Mi scuso con chi ha letto o leggerà. Alterare il testo, a questo punto, sarebbe impossibile.


10

Gilberto Ascani di Torresecca aprì gli occhi lentamente, cercando di mettere ordine nei suoni che lo avevano risvegliato. Riconobbe la voce di Juanita e intuì a chi erano rivolti i rimproveri ripetuti con un tono appena più alto di quello abituale e sempre con una nota di dolcezza.
Sorridendo si alzò dall’amaca, si avvicinò al mobile alla sua sinistra e si chinò sulla bacinella piena d’acqua accanto al fornello. Stava ancora lavando il volto quando udì la porta aprirsi e il suono di corti passi leggeri e veloci che si avvicinavano. Le sue gambe vennero strette in un abbraccio deciso e avvertì il contatto con un viso bagnato di lacrime, che attraversavano la tela consumata dei calzoni inumidendogli la pelle.
“Perché piangi e strilli così, Rebeca? - domandò Gilberto dopo aver passato frettolosamente sul viso uno straccio. Si chinò e sollevò a fatica la bambina avvinghiata a lui. Passò piano le dita sugli occhi di lei per asciugarli e sorrise - Che sarà mai successo per farti disperare in questo modo?”
Rebeca tirò su con il naso e scrollò la testa, guardando incredula Gilberto, stupita che non avesse già compreso tutto.
“Tornare a scuola non è così grave, Rebeca - disse lui passando piano le dita tra i folti capelli neri. Si costrinse a non piegare la testa all’indietro, come l’istinto lo avrebbe indotto a fare per compensare la presbiopia che gli impediva di distinguere nitidamente il volto della bambina - Troverai le maestre e i compagni dello scorso anno… Avevi molti amici, ricordi?”
“Io non voglio tornare in città!”
“Devi stare in città solo per poche ore al giorno… un piccolo sforzo per imparare cose nuove… Ci aspettano altre letture e altre operazioni. Non vorrai che io passi le mie giornate disteso sull’amaca a far niente. Che ne sarebbe di me se tu non mi aiutassi a imparare le cose che ho dimenticato tanto tempo fa?”
“Cosa dici? Sei tu che aiuti me, Gilberto!”
“Ne sei sicura? Non credo di averti insegnato nulla…”
A Gilberto parve di cogliere un cambiamento di espressione nel volto della bambina, anche se non era affatto sicuro di ciò che vedeva attraverso i suoi vecchi occhi.
“Davvero ti ho aiutato a imparare qualcosa? - domandò Rebeca con una nota di allegria nella voce tornata sicura - Non mi stai prendendo in giro, Gilberto?”
“Ti ho mai presa in giro, Rebeca?”
Lei non disse nulla, ma scrollò piano la testa. Lui sorrise e si chinò con cautela, liberandosi delicatamente dal suo abbraccio e del suo peso, cercando di non lasciar trasparire quanto doloroso fosse stato per la schiena tenerla in braccio per pochi minuti.
Solo allora si rese conto dell’ombra proiettata sul pavimento dalla donna che li osservava dalla soglia della porta. Girò lo sguardo verso di lei e sorrise a Juanita, nei cui occhi intuiva gratitudine. Tornò a guardare Rebeca e le tese la mano destra, che lei strinse senza esitazione, pronta a lasciarsi guidare da lui verso ciò a cui, pochi minuti prima, aveva desiderato sottrarsi.
“Dai la mano alla mamma, Rebeca.”
Erano lentamente arrivati alla porta della baracca e Gilberto non si sentiva sicuro di poter affrontare neppure l’aria ancora tiepida del primo mattino, arrossata dal sole che appariva da dietro il vulcano.
La bambina lo guardò attentamente, allungò la mano destra verso la madre, ma non lasciò la presa attorno a quella di Gilberto, quindi mosse un passo verso l’esterno. Lui inspirò a fondo e si lasciò guidare da Rebeca sugli scalini che portavano al prato ancora umido di rugiada che bagnò i loro piedi nudi.
Impiegarono parecchi minuti per coprire la breve distanza fino alla strada accanto alla quale già erano in attesa della corriera altri tre bambini. Gilberto fece uno sforzo per restare in piedi accanto a Rebeca, resistendo al bisogno di lasciarsi scivolare a terra per sedersi. Con sollievo udì il rumore del motore che proveniva dalla foresta e annunciava l’avvicinarsi del vecchio autobus giallo che collegava a Granada i villaggi distesi sul pendio del vulcano.
S’impose di restare in piedi sul ciglio della strada anche quando Rebeca fu salita sulla corriera e questa si allontanò a bassa velocità sullo sterrato, lasciando dietro di sé una scia polverosa, segno che il sole, ormai apparso interamente nel cielo, aveva già asciugato l’umidità della notte tropicale.
“Andiamo, Gilberto?”
La voce di Juanita lo indusse a distogliere lo sguardo dal veicolo. Mosse piano la testa e si appoggiò al braccio che lei gli offriva.
Rientrato nella baracca si fermò esitante poco oltre la porta. A fatica resistette al desiderio che si era affacciato prepotente dentro di lui nel camminare accanto a Rebeca verso la strada. Si avvicinò al fornello e mise la caffettiera già pronta sul fornello a gas. Mangiò due biscotti masticando lentamente  e, quando il caffè fu pronto, riempì la tazza scheggiata e, stringendola tra le mani, si avvicinò alle mensole su cui aveva disposto ordinatamente i libri. Era felice di non aver ceduto subito alla propria ansia: appagare il bisogno suscitato dall’irruzione di Rebeca sarebbe stato anche più bello.
Mise gli occhiali, allungò la mano con sicurezza e prese la vecchia edizione de “Il buio oltre la siepe”. L’aprì e trovò facilmente il capitolo che cercava. In piedi si concesse infine il piacere di rileggere le pagine di Harper Lee in cui era descritta la ribellione di Scout nel suo primo giorno di scuola.


11

Aurora Ascani di Torresecca sollevò per la seconda volta lo sguardo dal libro e seguì il flusso di luce più intensa che illuminava il pavimento davanti alla scrivania: la nebbia sembrava finalmente diradarsi.
Quando si trovò a fissare l’arco del portico oltre le vetrate, si rese conto, però, che la coltre si era già richiusa e che il sole era di nuovo solo una macchia appena più chiara nella massa lattea distesa sulla campagna. Guardò l’orologio e scrollò appena la testa con rassegnazione. Erano passate da poco le undici e, ormai, era inutile aspettarsi che il sole l’avesse vinta.
Prese il segnalibro, lo sistemò con cura tra le pagine ingiallite e chiuse il libro alzandosi in piedi. Fissò i cani che giacevano addormentati uno addossato all’altro, corpi quasi perfettamente arrotolati su sé stessi che si muovevano appena al ritmo del respiro calmo.
Pezza fu la prima a rendersi conto che Aurora si era mossa. Si allungò sul pavimento per stiracchiarsi, immediatamente imitata dagli altri due. Pochi istanti dopo iniziarono a girarle attorno sbattendo la coda, consapevoli che era arrivato il momento della passeggiata mattutina nei campi.
Una volta usciti di casa, mentre ancora Aurora infilava gli stivali di gomma, i tre cani corsero verso il cancello abbaiando allegramente. Li seguì sorridendo, felice della loro felicità, pur non riuscendo a liberarsi dei timori abituali in giornate come quella.
Avrebbe preferito che la nebbia si fosse alzata, così da poterli vedere quando sarebbero stati all’esterno, dove poteva ancora esserci qualche cacciatore con i propri cani. 
Aurora considerava un sopruso inaccettabile che la sua proprietà potesse essere percorsa liberamente da chiunque, armato di un fucile, andasse alla ricerca di un fagiano, di un colombaccio o di una lepre da predare. E le impedisse con la sua presenza di godere liberamente i suoi terreni in compagnia dei suoi cani. Inutile, però illudersi di cambiare le cose: quella era solo una delle numerose prove che i politici italiani non esitavano a sacrificare i diritti di molti pur di ottenere il consenso di pochi, soprattutto se prepotenti.
Stringendosi nelle spalle tirò fuori le chiavi dalla tasca del giaccone e aprì il cancello, lasciando che Pezza, Daisy e Astro si lanciassero verso la capezzagna che attraversava da nord a sud la tenuta.
Chiuso il cancello, Aurora accelerò il passo, guardando davanti a sé, sforzandosi per distinguere le forme dei cani che si rincorrevano già abbastanza distanti da lei, tanto che faticava a scorgerli.
Camminò per qualche minuto prima di fischiare alcune volte e chiamare Pezza, la più pronta a obbedire ai suoi comandi. Uno dopo l’altro i cani la raggiunsero per farsi accarezzare e poi lanciarsi nuovamente di corsa sull’erba umida che ricopriva la capezzagna, una traccia verde e luccicante accanto alla terra bruna.
Resistette al desiderio di richiamarli ancora, consapevole che non poteva privarli del piacere di correre, di annusare, di giocare, di saltare un fosso, di godere di una libertà ignota a tanti loro simili.
Erano trascorsi una ventina di minuti dal momento in cui erano usciti di casa quando, attraverso la nebbia, arrivarono un po’ attutiti i rintocchi delle campane della chiesa. Aurora rabbrividì rendendosi conto che annunciavano la morte di uno degli abitanti del piccolo paese. Solo da pochi anni aveva saputo che, nel momento in cui giungeva in canonica la notizia della morte di uno dei parrocchiani, tutti venivano informati in quel modo, così che il lutto di alcuni divenisse un dolore e un momento di preghiera collettivi.
Aurora non si considerava, e non era considerata, un membro della comunità come gli altri. Non era nata lì, non aveva parenti e neppure amici in paese. Ciò non le impediva di essere trattata con cortesia e anche con simpatia, forse anche perché lei era sempre stata gentile, disponibile, evitando istintivamente di creare qualsiasi barriera, adeguandosi alle semplici regole dei suoi concittadini.
Si ritrovò a chiedersi chi fosse la donna o l’uomo che le campane salutavano con quei suoni tristi e monotoni. Sapeva di qualcuno che combatteva da tempo con la malattia o con il peso degli anni, ma certo non era in grado di dire di chi venisse annunciata la morte.
Il riaffacciarsi del sole tra la nebbia la distolse da questi pensieri. Alzò lo sguardo e sorrise rendendosi conto che, finalmente, la spessa coltre si andava sollevando, vinta dal calore tenue del sole dei giorni tristi di Novembre. 
In pochi minuti ritrovò davanti a sé, finalmente nitido, il panorama delle sua terra e un senso di sollievo si diffuse in lei. Richiamò i cani solo per dividere con loro quel momento, accarezzandoli e lasciando che le leccassero le mani e il volto, quindi li invitò a riprendere le loro corse, restando ferma a guardarli mentre si inseguivano.
Trascorsero almeno dieci minuti prima che Pezza segnalasse la propria stanchezza allontanandosi dagli altri due per raggiungere Aurora. Astro e Daisy la imitarono poco dopo.
Iniziarono a percorrere insieme il tragitto verso casa. Alla loro sinistra, a circa un paio di chilometri, tra le volute di vapore che si sollevava dalla terra umida, Aurora scorgeva il parco della grande villa al centro del paese e la sommità del campanile che spuntava tra gli alberi più alti, ancora non completamente privi di foglie, così che si stagliavano nel cielo grigio in un combinarsi di tonalità di rosso, di giallo, di marrone e di arancio.
Molti anni prima, quando Aurora aveva lasciato il mondo finanziario e aveva deciso di trasferirsi nella campagna a sud di B., la villa era in vendita e lei avrebbe potuto facilmente acquistarla con la notevole ricchezza accumulata negli anni trascorsi a New York. Aveva, tuttavia, preferito comprare l’azienda agricola con il rustico in cui si era trasferita non appena terminati i lavori di restauro.
Lasciò la memoria ritornare a quei momenti lontani, ripercorrendo senza particolare emozione i passaggi attraverso i quali aveva trasformato se stessa e imparato in fretta tutto quel che era necessario per svolgere al meglio la nuova attività. Continuò a pensare al passato anche mentre, prima di rientrare in casa, asciugava i cani e puliva con cura le zampe sporche di fango.
Quando fu nello studio si avvicinò alla libreria che ospitava la raccolta di cd e trovò in pochi secondi quello che cercava.
Raggiunse la scrivania e inserì il disco nel lettore, selezionando il brano che intendeva ascoltare. Le voci malinconiche si diffusero lentamente nella stanza seguendo l’armonia semplice immaginata da Aarvo Pärt per il suo De Profundis. Aurora ascoltò il brano in piedi, osservando la terra scura illuminata dal sole. Sembrava riposare, rinnovare le forze, predisporsi a nutrire i semi che avrebbe accolto a primavera.


12

Florence Ascani di Torresecca si alzò per sparecchiare il piccolo tavolo. Gilberto la indusse a fermarsi alzando appena la mano destra. Servendosi delle dita, con lenti movimenti meticolosi, raccolse le briciole di panettone rimaste sul proprio piatto e le portò alla bocca con gusto.
La giovane lo osservò per un attimo, poi si volse verso Ginevra, seduta di fronte al fratello. Bastò che i loro sguardi s’incontrassero per condividere la soddisfazione suscitata dal piacere vagamente infantile con cui Gilberto consumava anche le ultime tracce della cena di Capodanno che avevano allestito nella baracca.
“Ne vuoi un’altra fetta? - domandò Florence pur conoscendo la risposta - Te ne taglio una piccola, Gilberto…”
“No, grazie - rispose lui con voce ferma, ma dolce - Ho mangiato in poche ore più di quanto io mangi in una settimana.”
Florence intuì nelle parole dello zio ben più della preoccupazione per i problemi che avrebbe potuto avere nel digerire le pur leggere portate allestite dalla cucina dell’albergo di Granada in cui lei e Ginevra alloggiavano dal giorno precedente.
Si mise a sedere, un po’ irritata per la propria insistenza con l’uomo pacato, ma deciso al quale Ginevra aveva deciso di presentarla proprio in occasione della fine dell’anno. Un anno che aveva impresso un segno profondo nelle vicende degli Ascani di Torresecca, la famiglia che Florence già considerava senza sforzo, quasi istintivamente, la sua.
Socchiuse gli occhi, così da scorgere appena il chiarore tenue sparso nella stanza dalle lampade a gas, e ripensò al Capodanno precedente, trascorso a San Francisco con Filiberto, l’ultima vacanza vissuta insieme al padre. Ne avvertiva la mancanza, un vuoto profondo che andava ben oltre l’assenza nella vita quotidiana, che con lui aveva condiviso a lungo nell’ufficio di Montecarlo. La morte del padre, inevitabilmente, aveva impoverito anche le sue passioni per la musica, per la lettura, per l’arte. Ginevra stava pian piano prendendone il posto, ma non avrebbe mai potuto sostituire interamente Filiberto e non solo perché erano troppo diversi i caratteri e i gusti, l’intensità e le manifestazioni dei sentimenti, il modo di guardare le persone e le cose.
Nutriva affetto e riconoscenza per Ginevra, le piaceva dividere buona parte della sua vita con lei, ma inevitabilmente al loro rapporto, che la vendetta consumata insieme rendeva indissolubile, quasi viscerale, mancava e sarebbe sempre mancata la lenta maturazione di quello con Filiberto.
A modo suo, era stato un padre presente anche nel periodo in cui Florence aveva vissuto con la madre e le sue apparizioni erano state poco frequenti. Quando aveva iniziato a capire, pur non avendo la certezza, che lui era suo padre, quasi senza avvedersene, aveva cercato di assorbirne gli interessi e le convinzioni, così da prepararsi all’incontro successivo, ansiosa di ottenere più attenzione e più approvazione di quanto lui già le riservava.
Prese il bicchiere che conteneva ancora un po’ di champagne. Non era certo quello raro, ricco di profumi e aromi inebrianti, consumato con Filiberto dodici mesi prima, ma Florence, oltre a sapersi adattare alle circostanze, non avrebbe dato importanza a un dettaglio trascurabile, che non scalfiva la gioia di essere con lo zio e con la madre adottiva, due persone verso le quali nutriva affetto intenso, anche sorprendente nel caso di Gilberto, incontrato solo poche ore prima, ma già familiare grazie alle descrizioni di Ginevra e di Aurora, assai legate al fratello cui la sorte aveva riservato un percorso del tutto diverso da quello degli altri componenti della famiglia.   
“Adesso fumerò uno dei sigari che mi hai regalato, Florence - annunciò Gilberto alzandosi lentamente in piedi - Magari lo farò fuori… Venite con me, per favore… Non è necessario che mettiate in ordine.”
Aperta la giara di ceramica color avorio, ne estrasse uno degli Avana e lo studiò a lungo rigirandolo tra le dita, apprezzando le tenui venature della fascia di colore più caldo e dorato e più lucida di quelle dei sigari prodotti a pochi chilometri di distanza.
“Hanno un profumo straordinario… non saprei dire quanto tempo è passato da quando ho fumato un sigaro cubano per l’ultima volta… - disse tenendo la punta del sigaro accostata al naso - Fu durante la guerra con i Contras. Da Cuba non arrivavano soltanto armi.”
Florence lo osservò stupita: nelle ore trascorse con loro, Gilberto non aveva mai fatto riferimento al passato. Anche quando sarebbe parso impossibile, lui era riuscito a evitarlo e si era sottratto con lucidità a ogni tentativo di Ginevra di indurlo a parlare degli anni vissuti alla macchia insieme ad Amparo. Con fermezza, ma dolcemente, aveva respinto gli assalti della sorella a quella parte della sua vita il cui ricordo aveva deciso di proteggere dalla curiosità di chiunque, serbandolo solo per sé.
Florence attese che Gilberto spuntasse il sigaro e lo accendesse, quindi gli offrì il braccio per compiere insieme a lui il breve tragitto dal tavolo alla porta della baracca.
“Sigari cubani e champagne francese… - Gilberto lasciò che la frase si spegnesse in un lungo momento di silenzio, quindi, sorridendo a Florence, continuò - Piaceri insignificanti di fronte all’emozione che ho provato nel conoscerti e nel parlare con te…Tuo padre ed io eravamo molto legati da ragazzi… In realtà, ero molto legato a tutti i miei fratelli, anche ad Ascanio…”
“Mi pare che tu lo sia tuttora…”
“E’ vero… - ancora Gilberto tacque per alcuni istanti, poi riprese a parlare lentamente e a bassa voce, quasi con riluttanza - Di questo dobbiamo essere grati al destino che da tanti anni ci tiene lontani.”
Gilberto accennò a un sorriso e lentamente sedette sul gradino più alto della scala che portava all’orto, illuminato dalla luna piena.


13

Aurora Ascani di Torresecca, ai piedi dell’argine, osservava la rossa mietitrebbia che avanzava lentamente nel campo di frumento, avvolta dalla nuvola di polvere che sollevava procedendo sotto il sole di mezzogiorno.
Come sempre, da quando aveva acquistato l’azienda agricola, Aurora si ritrovò a pensare che il momento del raccolto suscitava sempre un’emozione profonda, una gioia che prescindeva dalla dimensione dei risultati, ma nasceva dalla soddisfazione per aver portato a compimento il proprio lavoro. E anche che la trebbiatura del grano era certamente la più bella. Forse perché si svolgeva sempre attorno al momento culminante dell’estate, quando accanto al frumento, morto e ormai bruciato dal sole, le altre colture erano nel pieno dello sviluppo e offrivano allo sguardo dell’agricoltore nuove promesse o nuove preoccupazioni, sentimenti inevitabili in chi vedeva il frutto dei propri sforzi esposti alle bizzarrie del clima e alle minacce anche subdole portate da insetti, funghi, tossine. Sorridendo, volse lo sguardo verso Ascanio, che pochi minuti prima si era allontanato da lei e aveva raggiunto i cani, distesi all’ombra di uno dei due grandi carpini che si ergevano ai limiti del piccolo parco attorno alla casa.Aveva accolto con sorpresa e con entusiasmo la sua richiesta di unirsi a lei per la trebbiatura. Non era mai accaduto in passato. Fino a quel momento Aurora aveva nutrito la convinzione che, come altre, anche la sua decisione di comperare l’azienda agricola fosse risultata incomprensibile ad Ascanio. Più che il sesso e la differenza d’età, a segnare i loro rapporti era stato il modo di affrontare la vita. Da bambino, Ascanio aveva vissuto all’ombra di Filiberto, imitandone un po’ maldestramente la spavalda indifferenza alle regole e la beffarda capacità di mettere in evidenza le debolezze altrui. Poi, quando il fratello maggiore lo aveva pian piano allontanato da sé, si era chiuso, concentrandosi nello studio e nella pratica sportiva, con successo nel primo e risultati mediocri nella seconda.Ascanio era il solo, tra i fratelli, ad avere raggiunto la laurea. Filiberto aveva a stento ottenuto il diploma di ragioniere e, dopo il servizio militare come ufficiale di complemento, aveva messo a frutto amicizie e propensione per la vita ai limiti della legalità nel commercio delle armi, grazie al quale aveva accumulato ricchezza e appagato il suo desiderio di vivere sfarzosamente.Ginevra, presto consapevole della propria bellezza, non si era preoccupata di andare molto oltre la licenza media. Abile fin da giovane nel gestire, come il gemello, le relazioni personali, aveva viaggiato molto e si era sposata prima dei diciotto anni con un nobile spagnolo, assai ricco e più anziano di lei, il primo di tre mariti che avevano conosciuto solo nel momento del divorzio la fredda determinazione della moglie, che dietro la bellezza eterea e altera, nascondeva una volontà e obiettivi non diversi da quelli di Filiberto.Una dote caratteriale, la volontà, che certo mancava a Gilberto, vinto presto dalla delusione amorosa con Eleonora e altrettanto rapidamente allontanato dalle ambizioni ecclesiastiche dalla passione per Amparo e dalla sua conclusione violenta.Ottenuta la maturità classica, Aurora aveva frequentato per un anno giurisprudenza, poi, grazie ad una delle rare amicizie importanti conservate dal padre, era andata a Londra per uno stage in una banca d’affari. La sua carriera nel mondo della finanza internazionale aveva preso avvio allora. E le aveva permesso di scoprire una disinvoltura e una determinazione non diverse da quelle di Filiberto e Ginevra, caratteristiche che non le appartenevano, ma che si era data per scalare in fretta la vetta più alta che una donna poteva raggiungere. E accumulare, ancora con disinvoltura e determinazione, senza troppo preoccuparsi delle regole, una ricchezza grazie alla quale realizzare il progetto di tornare in Italia e dedicarsi all’agricoltura con la tranquillità che non le sarebbe mai mancato il denaro per condurre comunque un’esistenza in cui avere ciò che, superata la soglia dei quarant’anni, considerava indispensabile.Guardò ancora per qualche istante Ascanio che, sedutosi tra i cani, li accarezzava piano, quasi che anche quel semplice movimento potesse risultare troppo impegnativo nel calore opprimente. Riportato lo sguardo sulla trebbia, vide con soddisfazione che si stava arrestando e che il braccio si protendeva in fuori, preparandosi a svuotare il contenuto del cassone nel rimorchio trainato dal trattore avvicinatosi per consentire il travaso del grano.Aurora evitava di valutare la dimensione del raccolto da indicatori approssimativi come il tempo necessario per riempire il cassone della trebbia. Sapeva che i conti andavano fatti alla fine, dopo che l’ultima consegna era stata pesata ed erano state valutate le caratteristiche organolettiche misurabili dagli strumenti disponibili in piarda. Era un’abitudine sviluppata quando aveva assunto posizioni sul mercato azionario, investendo il denaro della banca, dei clienti e, anche, suo. Attendeva che si realizzassero le condizioni in vista delle quali aveva deciso di investire in questo o quel titolo. O che non si potessero realizzare, circostanza che, per sua fortuna, non era accaduta così spesso da far tramontare la sua stella.Quando la trebbia riprese a muoversi, tornò a guardare Ascanio. Dopo la laurea in ingegneria idraulica conseguita con lode a B., considerata una delle più severe università italiane, aveva ottenuto rapidamente un impiego di un certo rilievo nel settore pubblico, ma ben presto la spinta iniziale si era esaurita. Pur non avendone parlato con lui, Aurora sapeva che la causa era stata il rigore del fratello, incapace di seguire l’esempio dei colleghi, pronti spesso a ignorare lo spirito della legge e, talvolta, anche la lettera. Si era licenziato e aveva avviato una modesta attività professionale, anch’essa segnata dall’indisponibilità a percorrere le vie più brevi e più convenienti, nelle quali avrebbe dovuto incontrare i suoi colleghi di un tempo e adeguarsi a loro. Aurora era orgogliosa di lui.


14

Florence Ascani di Torresecca distolse lo sguardo dalla zia e tornò a fissare le innumerevoli piccole farfalle di un colore tra il grigio e il marrone che coprivano quasi completamente la grande vetrata dello studio di Aurora. Si accentravano soprattutto nella parte alta della finestra, dove la luce delle due lampade gemelle a pavimento doveva apparire loro più intensa perché riflessa dal soffitto.
“Piralide - spiegò Aurora consapevole di cosa attirava l’attenzione di Florence, distraendola dalla loro conversazione distesa e un po’ futile -. E’ un parassita del mais. Non sono affatto contenta di vedere quei dannati insetti sui miei vetri… significa che centinaia di loro discendenti, piccole larve avide, si stanno nutrendo delle piante del mio granturco.”
“Non hanno l’aria di essere così pericolose.”
“Come molti dei nemici che devo combattere per ottenere raccolti che coprano le spese…”
“Sono tanti?”
“Certamente più di quanti vorrei che fossero…”
Aurora sollevò la mano, inducendo Florence a non dir nulla. Attraverso gli altoparlanti nella stanza fluivano le note di un assolo di Steve Lacy al sassofono. Avevano scelto il disco insieme, quando, dopo la cena, erano tornate nello studio e si erano sedute sul divano posto davanti alla scrivania, da dove avevano visto la luce del giorno spegnersi lentamente sopra la campagna, mutando i colori del mais, delle bietole e della soia, cosi come quello della terra coperta dalle stoppie rimaste dopo la trebbiatura del grano.
“Scusa - disse Aurora sorridendo dolcemente -. Quel brano è bellissimo… Misterioso di Monk… Lacy lo interpreta in maniera a tratti struggente… La tua domanda?”
“Anche al principale piaceva Monk… avrò ascoltato Misterioso decine di volte nel nostro ufficio di Montecarlo… - Florence sorrise teneramente nel ricordare gli anni in cui aveva lavorato accanto al padre. Aurora le accarezzò il volto, mentre la ragazza continuava - Quando dici combattere i parassiti intendi dire che fai ricorso a… come si dice in italiano pesticides?”
“Antiparassitari o fitofarmaci… anche pesticidi. Sì, devo necessariamente impiegarli. Non sono felice di farlo, ovviamente mi piacerebbe poterne fare a meno, ma non posso. E’ indispensabile. Oggi, per fortuna, si usano con molta maggiore prudenza e consapevolezza che in passato e vengono effettuati controlli molto più rigorosi sul loro utilizzo.”
“E’ indispensabile per ottenere livelli di produzione consistenti?”
“Non solo. Combattere la piralide e la diabrotica, che causa danni simili, serve anche a mantenere la pianta sana e a impedire che sia attaccata da batteri che favoriscono lo sviluppo di funghi che generano tossine cancerogene… Sto semplificando, Florence, ma non vorrei annoiarti.”
“Non mi annoio affatto. Mentre parlavi ho ricordato di aver letto qualcosa sull’argomento… Se le tossine superano certi limiti, il raccolto viene distrutto, vero?”
“Non proprio… Viene usato negli impianti che producono gas per generare elettricità… A me, però, non sembra il miglior impiego di qualcosa che dovrebbe servire a nutrirci. Tuttavia è giusto che i prodotti contaminati da sostanze pericolose non finiscano sulle nostre tavole. Anche se sul tema dell’alimentazione si leggono una sacco di strozate.”
“Sembra anche a me…”
“Chiunque oggi si sente autorizzato a parlare di qualsiasi cosa, e l’alimentazione è uno degli argomenti sui quali tanti esprimono opinioni che non hanno nessun fondamento scientifico e che sono frutto di preconcetti e di convinzioni personali che si vorrebbe imporre agli altri… E si cerca di affermare modelli di consumo alimentare che, quand’anche fossero giustificati, sarebbero alla portata di una percentuale risibile della popolazione mondiale. Chi può permettersi di discettare su cosa è giusto mettere nel piatto si dimentica che ci sono centinaia di milioni di persone che non hanno nulla da mettere nel piatto. E che, quando hanno qualcosa da mangiare, non si chiedono come è stato prodotto.”
Florence annuì senza dir nulla, consapevole che Aurora non aveva concluso le proprie considerazioni, espresse con tono pacato, anche esitante, che faceva capire quanto fosse riluttante a fare affermazioni definitive.
“Non mi piace il modo in cui si parla di agricoltura e di alimentazione nei social network e anche nei giornali, Florence… Molti di quelli che esprimono convinzioni sulle tecniche agricole e sull’impiego degli antiparassitari non saprebbero distinguere un campo di frumento da uno di soia… Prevalgono verità rivelate e luoghi comuni… banalità… sciocchezze…”
Ancora Florence annuì.
“Io non so se quello che faccio è esattamente il meglio che si potrebbe fare, mi auguro che lo sia - disse Aurora quasi con tormento -. Mi faccio consigliare da persone che considero, preparate, serie e attendibili, seguo scrupolosamente le leggi e le normative in vigore, sono contenta se posso evitare un trattamento con fitofarmaci, ma quando non posso farne a meno per preservare il raccolto ed essere sicura che sia sano e adatto a essere messo sul mercato… Io non posso evitare di pensare che, se l’uomo avesser rinunciato a studiare come preservare i raccolti e come migliorare le sementi, rendendole più forti e più produttive, le carestie, in gran parte del mondo, anche nel nostro mondo, non sarebbero un vago ricordo. Lo capirebbe chiunque si prendesse la briga di vedere quanto diversa è oggi una spiga di grano da quelle che si producevano soltanto cinquant’anni fa…”


15

Aurora Ascani di Torresecca aprì gli occhi nel buio della sua stanza, risvegliata dalla tosse che da alcuni giorni affliggeva Pezza. Prima di allungare la mano verso l’interruttore della lampada, guardò il quadrante della sveglia. Mancavano più di venti minuti alle sei del mattino. Accese la luce e allontanò lentamente le lenzuola, osservando i cani che si alzavano in piedi e, come ogni mattina, si avvicinavano al letto per celebrare il suo risveglio, ansiosi di riprendere la loro vita accanto a lei e di mostrarle quanto ciò li rendeva felici.
Nemmeno mezz’ora più tardi, camminava in campagna, nella foschia morbida e luminosa della mattina di fine settembre, diversa dalla nebbia dei mesi invernali, più spessa e gelida.
La fine dell’estate, arrivata improvvisa dopo giorni torridi e opprimenti, le procurava una tenue e dolce malinconia, nella quale si insinuava come un sorriso la piacevole impazienza per l’aprirsi di una nuova annata di lavoro.
Di lì a poco sarebbero arrivati i trattori per iniziare l’aratura. Aurora era grata alla tosse di Pezza che le aveva permesso di ripercorrere ancora una volta la campagna annusando nell’umidità del mattino l’odore dei raccolti prima che svanissero, sopraffatti da quello, non meno piacevole, della terra rovesciata dai vomeri e dagli altri attrezzi utilizzati per prepararla alle nuove semine.
La pioggia caduta nei giorni precedenti, oltre a imporre l’autunno, aveva risvegliato il ricordo olfattivo delle colture. Aurora avrebbe potuto distinguere, anche camminando a occhi chiusi accanto a un appezzamento, cosa era stato coltivato. Le barbabietole lasciavano dietro di sé un sentore dolciastro che poteva talvolta risultare sgradevole quando i residui erano stati calcinati da giorni di sole intenso, com’era accaduto quell’anno. Dai campi di granoturco emanava un odore più pungente e aspro, che le sembrava ricordare quello di alcuni whisky di puro malto. Le stoppie di frumento, il primo raccolto, spargevano nell’aria il profumo della paglia, forse il più nitido, reso più prepotente dalla lunga esposizione a oltre due mesi di sole estivo, quasi che il calore lo distillasse e lo concentrasse. Infine, ultima coltura trebbiata solo pochi giorni prima, la soia lasciava nell’aria un odore erbaceo, a volte percorso da tenui note legnose, prodotte dal fusto.
Aurora si arrestò nel crocevia delle capezzagne, all’ombra dei quattro pioppi cipressini che aveva fatto trapiantare pochi giorni dopo aver preso possesso del fondo. Si chinò a guardare se tra l’erba folta che cresceva ai piedi dei tronchi si nascondevano i piopparelli. Ne vide alcuni appena spuntati dal suolo, ancora di un intenso colore bruno. Decise di lasciarli lì, pur consapevole che, l’indomani, avrebbe potuto non trovarli più: la sua proprietà, come quelle di quasi tutti, era percorsa da tanti che si consideravano autorizzati a raccoglierne i frutti, come se non fossero, appunto, nati nel terreno di Aurora e, quindi, appartenessero a lei.
Mentre si raddrizzava, Astro saltò avvicinando il muso al suo volto e la leccò sulla guancia, ottenendo in cambio carezze sul dorso e sull’addome, alle quali reagì muovendo la zampa posteriore destra come se volesse grattarsi là dove i polpastrelli di Aurora percorrevano il suo pelo folto.
Come sempre, la reazione istintiva del cane la fece sorridere e l’aiutò a liberarsi dall’irritazione provocata dal pensiero che i suoi funghi sarebbero finiti nel piatto di qualcun altro e non nel suo.
Ancora sorridendo prese dalla tasca lo smartphone e aprì l’archivio dei brani musicali. Anche se la qualità della riproduzione era mediocre, spesso le piaceva ascoltare i suoi pezzi preferiti mentre camminava in campagna con Pezza, Daisy e Astro.
L’avvicinarsi del rumore di motori la indusse a distogliere lo sguardo dallo schermo e a volgerlo in direzione dell’accesso al fondo. Ormai il tepore del sole aveva dissolto la foschia e Aurora poteva vedere i due trattori rossi che si fermavano all’inizio della capezzagna che percorreva la proprietà nel senso della lunghezza. Dopo qualche istante, ripresero a muoversi. Il più grosso si portò accanto al fosso che segnava il confine occidentale, mentre il più piccolo raggiungeva quello orientale. Aurora li osservò, intuendo che gli aratri venivano abbassati e posizionati per iniziare a penetrare nel terreno e rivoltarlo.
Tornò a guardare lo schermo del telefono e avviò la riproduzione di Harvest Time di Pharoah Sanders. Rimase ad ascoltarlo, immobile spostando lo sguardo da un trattore all’altro, immaginando l’odore della terra che si spargeva nell’aria, attirando le garzette e i gabbiani che vedeva svolazzare dietro i trattori, avidi degli insetti costretti a lasciare i propri rifugi dalle macchine.
Quando il lungo brano terminò, avviò nuovamente la riproduzione e si incamminò lentamente verso la sua sinistra, raggiungendo l’appezzamento percorso dal trattore più potente, che trascinava un aratro trivomere. Nella luce del sole ormai abbastanza alto la terra risplendeva scura, qua e là punteggiata dall’oro della poca paglia che l’aratro non aveva coperto con le lunghe zolle che si sgretolavano dopo il suo passaggio.
L’odore del frumento raccolto era ormai sovrastato da quello del terreno umido portato alla luce dalle lame di metallo e polietilene che si insinuavano profondamente nel suolo, rivoltandolo.
Ad Aurora sarebbe bastato spostarsi di pochi metri per ritrovare l’odore della paglia macerata dal sole e dalle recenti piogge, ma preferì incamminarsi lungo il solco tracciato dall’aratro per valutare la qualità del lavoro.
La terra aveva il giusto grado di umidità e si sgranava in modo ottimale, spargendo nell’aria il suo profumo. Di lì a pochi mesi Aurora avrebbe ascoltato Pharoah Sanders osservando il primo raccolto della nuova annata.


16

Ascanio Ascani di Torresecca fermò l’auto pochi metri oltre il cancello e attese che si chiudesse osservando i cani illuminati dagli otto potenti fari posizionati in coppie sugli angoli della casa di Aurora, appena sotto il tetto. Con sollievo e senso di colpa insieme vide che non si muovevano: immobili, a pochi metri dal limite della recinzione, fissavano con tristezza la famigliare giapponese, consapevoli che l’occupante li avrebbe lasciati soli. Ignari della misura dl tempo, Pezza, Daisy e Astro lo guardavano allontanarsi persuasi di essere privati per sempre anche della compagnia di Ascanio, la cui presenza aveva solo attenuato il dolore per l’assenza di Aurora.
Da qualche anno Ascanio aveva preso l’abitudine di trasferirsi in casa della sorella quando lei si assentava a lungo, così da occuparsi dei cani e da concedersi lui pure un’interruzione nella monotonia della sua vita in città.
Quando il cancello fu chiuso, Ascanio inserì la marcia e fece ripartire la macchina sulla rampa che conduceva all’argine lungo il quale proseguì verso il ristorante in cui aveva deciso di cenare, il preferito tra quelli conosciuti grazie ad Aurora.
Nel breve tragitto, ripensò alla cena consumata una settimana prima, la sera successiva al giorno in cui si era stabilito nella casa della sorella, dove avrebbe alloggiato finché lei sarebbe rimasta assente, impegnata per oltre un mese nel viaggio che si concedeva ogni anno, in autunno inoltrato, al termine dei lavori in campagna.
Quella sera aveva ordinato ravioli al cavolo nero e Castelmagno e una ricetta rara della tradizione locale, l’oca in onto, poi, guidato da un istinto improvviso, aveva chiesto che gli portassero anche un cucchiaio di trippa: spinto dalla fiducia nella cucina del locale si era deciso a mettere alla prova il proprio gusto a distanza di anni per scoprire se ancora quel piatto gli sarebbe apparso sgradevole come da bambino. Nel tempo, aveva scoperto di apprezzare molti cibi rifiutati da piccolo. La trippa era uno degli ultimi baluardi concessi alle sue convinzioni alimentari infantili e intendeva scoprire quanto fosse solido.
Mentre mangiava lentamente i ravioli, assaporando la combinazione di formaggio e verdura racchiusi dalla sfoglia sottilissima e delicata preparata da Maura, si perse nei ricordi dei piatti che aveva recuperato poco alla volta in età adulta, provando sempre un senso di rammarico per la rinuncia a sapori e consistenze che, chissà perché?, da bambino gli erano parsi intollerabili. E come altre volte, nel riflettere su quelle stupide rinunce, si trovò a domandarsi se sarebbe stato capace, nel caso avesse avuto un figlio, di aiutarlo a non commettere i suoi errori anche a tavola.
E come altre volte, nel pensare al figlio che non aveva avuto, si ritrovò a considerare l’inaridirsi della sua famiglia. La nuova generazione degli Ascani di Torresecca era rappresentata dalla sola Florence, avuta da Filiberto fuori dal matrimonio. Ginevra aveva dedicato la sua giovinezza e la sua maturità a sedurre uomini facoltosi grazie ai quali soddisfare un’ansia di vivere che, non di rado, evitava di condividere anche con colui che le stava, provvisoriamente, accanto. Gilberto, votatosi a un’improbabile castità inseguendo la chimera della sua vocazione sacerdotale, aveva vissuto l’unico amore alla macchia, guerrigliero come la compagna, in condizioni nelle quali un essere ragionevole avrebbe evitato di mettere al mondo un figlio. Aurora, decisa a lasciare la propria impronta in un ambiente nel quale le donne ancora non avevano lo spazio che meritavano, si era dedicata al lavoro, inseguendo nuove mete, salendo con determinazione la gerarchia delle diverse banche d’investimento in cui aveva messo a frutto l’innata predisposizione per la matematica e gli affari fino a quando aveva sentito il bisogno di occuparsi della semplicità apparente dell’agricoltura, lontano dal lusso e dalla frenesia di Wall Street e Canary Wharf.
Lui, Ascanio, si era reso presto conto che le fondamenta del suo matrimonio erano troppo fragili per costruire una famiglia. E non smetteva di provare sollievo per aver saputo opporre fermezza alle aspirazioni materne, per la verità incerte, della moglie.
Le sue riflessioni furono interrotte dall’apparire di Luca che portava un candido piatto fondo. Lo posò davanti a lui e versò altro vino rosso nel calice. Ascanio lo ringraziò fissando le sottili strisce di carne bianca e rugosa immerse in un sugo di un rosso delicato e lucente. Per un attimo riapparve in lui la diffidenza sempre provata di fronte alle trippa, ma la scacciò senza fatica, abbassando la testa per meglio raccogliere gli aromi che emanavano dal piatto: in quello tenue del pomodoro si fondeva un delizioso sentore di carne, garbato, grasso, persistente, dolce.
La forchetta raccolse la prima fettina, la sollevò lentamente verso la bocca. Ascanio esitò qualche istante prima di schiudere le labbra e annusò ancora, pregustando il piacere che avrebbe provato quando quel profumo si sarebbe trasformato in sapore sulla lingua e sul palato.
Masticò lentamente, cercando di distinguere ogni dettaglio percepito dalle papille gustative, stupito dalla dolcezza e morbidezza della carne che pian piano i denti smembravano senza fatica, spargendo in bocca aromi nuovi e altri conosciuti. Ne prese subito un altra forchettata e ancora la inghiottì solo dopo averla masticata con cura, quasi cautamente, timoroso di perdere qualcosa.
“A cosa ho rinunciato per tanti anni… - disse sollevando lo sguardo verso Luca che lo osservava da dietro il banco che ospitava, oltre a una monumentale Berkel rossa, la ricca collezione di formaggi e di salumi - Squisita!”
Il cameriere sorrise, prendeva visibilmente parte all’emozione di Ascanio. Un anziano uomo felice come un bambino. 

P.S. La riscoperta della trippa è una recente esperienza personale. Così preziosa da avermi indotto a raccontarla attraverso Ascanio. Il ristorante di cui parlo esiste e si chiama Balobino. Si trova a nella bassa Padovana, a Sant'Urbano, accanto alla vecchia chiesa. Merita una visita. E poi vorrete tornare.  


17

Florence Ascani di Torresecca si fermò a osservare il vapore che saliva dal fianco meridionale dell’argine sul quale lei e Aurora camminavano in compagnia dei cani liberi dal guinzaglio. Il sole si faceva strada nella nebbia e scaldava il terreno, dissolvendo pian piano la brina depositatasi durante la notte di febbraio.
Abbaiando, Pezza si avvicinò alla giovane, invitandola a muoversi. Florence le accarezzò la fronte e il collo sorridendo, quindi raggiunse a passi rapidi la zia.
“Bello vedere cosa possono fare i raggi del sole in pochi minuti, vero? - domandò Aurora felice di ritrovare l’emozione con cui la nipote viveva la scoperta di fenomeni sconosciuti a chi, come lei, aveva vissuto la propria vita in città - La natura può essere affascinante anche in un luogo come questo… un lembo di campagna italiana piatto e privo di particolari attrattive.”
“Non è affatto privo di attrattive… Lo dici perché tu vivi qui e tutto per te è familiare… abituale…”
“Mi è familiare, certo, ma, in realtà, non lo considero affatto privo di attrattive. Ogni giorno apro gli occhi sicura che scoprirò qualcosa di nuovo. La natura offre sempre sorprese che incantano chi, come noi, sa apprezzarle, Florence.”
“Mi piacerebbe poter dire che tutti sanno apprezzarle, ma mi rendo conto che non è così.”
“Godiamoci la nostra condizione di privilegiate - Aurora sorrise ancora e mosse la mano invitandola a proseguire - Meglio camminare, il sole scioglie la brina, ma non mi sembra scaldare abbastanza i nostri corpi… o almeno il mio…”
“Sì, meglio muoversi.”
Ripresero il cammino silenziose, l’una accanto all’altra sull’ampia strada sterrata al sommo del largo e alto argine che sembrava una difesa esagerata rispetto al modesto corso d’acqua che scorreva alla loro destra.
“L’acqua può essere molto pericolosa da queste parti - disse Aurora intuendo ciò che pensava Florence. Proseguì indicando un punto ancora indistinguibile oltre la pur tenue coltre di nebbia -. Il nostro fiume, che scorre laggiù, ancora pochi decenni fa, ha causato gravissime inondazioni. Non è grande quanto il Po, ma può essere altrettanto violento. Non ricordo l’anno esatto, ma verso la fine dell’Ottocento ci fu una piena disastrosa, che provocò numerose vittime e sommerse gran parte della Bassa. Il canale accanto a noi ora appare un insignificante e pacifico corso d’acqua, ma io l’ho visto più volte scorrere impetuoso e salire fino a sfiorare la sommità dell’argine. E in un paio di occasioni sembrava che potesse inondare le nostre terre.”
Florence annuì senza dir nulla, osservando l’acqua trasparente, che a ridosso delle rive, soprattutto quella in ombra, era ancora coperta da sottili lastre di ghiaccio.
“Sembra difficile credere che qualcosa possa minacciare la serenità di questi luoghi - disse dopo un po’ -. Nell’Ottocento fu sommersa anche questa zona?”
“No, è rimasta come un’isola fortunata e ha dato accoglienza a centinaia di persone in fuga dall’inondazione… Quando torniamo a casa ti farò vedere un libro che parla di quella piena… Ha segnato un cambiamento importante nella storia della Bassa, perché ha dato impulso alla sistemazione idraulica dell’area, ma credo sia meglio leggere insieme e non fare affidamento sulla mia memoria…”
“Quanto deve essere cambiata la vita da allora…”
Florence lasciò la frase in sospeso, il tono incerto tra domanda e affermazione.
“E’ stata trasformata abbastanza profondamente, non tanto, tuttavia, da eliminare alcune condizioni inaccettabili… - disse Aurora indicando un fabbricato dal cui tetto sfondato si ergevano i fusti spogli di alcuni alberi - Costruzioni simili a questa ospitavano anche dieci… quindici famiglie. In una proprietà come la mia, durante alcuni periodi dell’anno, lavoravano molte decine di braccianti. La loro esistenza era poverissima, inimmaginabile per noi… E fino all’inizio del secolo scorso la vita si svolgeva in ambienti anche più malsani di costruzioni misere come questa. Li chiamavano casoni… muri di paglia e fango e tetti di canne. L’alimentazione era insufficiente… causava malattie e spesso non bastava per sopravvivere. All’inizio del secolo scorso, grazie anche a sovvenzioni pubbliche, sono stati costruiti edifici in muratura come questo, ma le condizioni di vita sono cambiate poco… intimità forzata, igiene a dir poco precaria e ancora alimentazione inadeguata. Poi la meccanizzazione ha cambiato per sempre l’agricoltura e la vita di questa terra e di chi ci viveva e dei pochi che ancora ci vivono.”
“Tanto che le case che ospitavano quelle famiglie sono crollate e le piante crescono in mezzo alle rovine… - nella voce di Florence più che tristezza traspariva sgomento - E le storie di tante persone svaniscono così… coperte da macerie e da radici di alberi…”


18

Gilberto Ascani di Torresecca riaprì gli occhi dopo un lungo momento di torpore. Trascorsi alcuni istanti, prese tra le mani l’iPad. Nel riattivarlo si scoprì a sorridere e a scuotere la testa, ancora sconcertato dalla confidenza ottenuta in poco tempo con il dono degli abitanti del villaggio.
A consegnare la bianca scatola, racchiusa da un nastro dorato, era stata Rebeca, scelta con la certezza che Gilberto non avrebbe respinto un regalo affidato alle mani della bambina. E, infatti, lo aveva accettato e si era fatto aiutare da lei ad aprirlo e, soprattutto, a far funzionare quel piatto aggeggio che lo trascinava in un mondo di cui, sino a pochi mesi prima, aveva solo percepito, anche con disagio, l’esistenza.
Non si era trattato di una sorpresa. Gilberto si era reso conto che il suo apparire aveva interrotto alcune conversazioni degli abitanti del villaggio quando, un paio di mesi prima, lui come gli altri, era uscito spesso per osservare i tecnici che, nel volgere di una settimana, avevano innalzato un pilone di cemento sormontato da due antenne rettangolari e piazzato ai suoi piedi un armadio metallico collegato ad alcuni pannelli fotovoltaici orientati a mezzogiorno.
Lui, diversamente dagli altri abitanti, aveva seguito quelle operazioni con poca curiosità e ancor meno ansia, ma tuttavia attento alla qualità dei lavori, il cui il costo aveva saldato in anticipo.
Portare una potente connessione alla rete era stato il secondo dono fatto al villaggio attingendo alla sua quota dell’eredità di Filiberto, accettata solo in seguito alle pressioni esercitate da Ginevra e da Florence nel corso delle loro due visite. Inizialmente aveva opposto un rifiuto, ma poi la sorella e la nipote avevano saputo servirsi dell’argomento più solido: la possibilità di usare il denaro per migliorare le condizioni di vita del villaggio in cui si era stabilito da quasi trent’anni.
Prima di sostenere la spesa per dare un migliore accesso a internet, Gilberto aveva voluto acquistare un nuovo autobus per trasportare i bambini e i ragazzi alle scuole di Granada, un mezzo più sicuro e più confortevole di quello che, preoccupato, aveva osservato tante volte percorrere la strada polverosa verso la città.
A Gilberto era parso che quella corriera luccicante, con comodi sedili e grandi finestrini azzurri fosse il modo migliore per consentire ai più giovani abitanti del suo villaggio di entrare in contatto con il mondo. Certo più adeguato, nel suo modo di vedere, della possibilità di utilizzare telefoni e computer. E aveva cercato, con l’ostinazione innata che il tempo aveva solo in parte attenuato, di resistere alle pressioni di Juanita, di Rebeca e dei pochi altri che, nel corso degli anni, avevano cercato e ottenuto la sua confidenza.
Alla fine la sua riluttanza si era dissolta, sbriciolata dalla caparbietà di Rebeca, che in un pomeriggio domenicale, anziché giocare con le amiche, si era seduta accanto all’amaca e aveva mostrato a Gilberto come, attraverso la rete, fosse possibile leggere articoli di giornale, libri, ascoltare musica, scambiare opinioni con persone a migliaia di chilometri di distanza dalle pendici del Mombacho.
In realtà, Rebeca gli aveva mostrato cose che a Gilberto avevano già in parte spiegato Aurora, Ginevra e Florence, ma le parole e la determinazione della bambina avevano scavato più profondamente in lui di quelle delle donne della sua famiglia.
Più che la volontà di svelargli come, in rete, potesse accedere ad articoli di giornali di ogni paese del mondo, così da migliorare la conoscenza del francese e dell’inglese che lui le aveva insegnato, o a testi che potevano soddisfare le sue tante curiosità, a convincerlo era stato il movimento nervoso delle dita di Rebeca sul tablet mentre le pagine si caricavano lentamente, costringendoli ad attendere anche parecchi minuti prima di accedere a quello che avevano deciso di leggere insieme.
Le dita della bambina che percuotevano la superficie consumata del tablet avevano fatto svanire le certezze di Gilberto: il mondo che, seguendo Amparo, aveva cercato di difendere, non esisteva più. Per comperare quell’oggetto ormai già obsoleto, Juanita e Manuel, i genitori di Rebeca, non avevano esitato a rinunciare a qualcosa, decisi a dare alla figlia uno strumento che lei avrebbe saputo usare per soddisfare la sua curiosità, la sua ansia di sapere, di conoscere il mondo che si stendeva oltre la foresta che circondava il villaggio. Così come non l’avevano ostacolata quando, ancor prima di iniziare a frequentare la scuola, Rebeca aveva visto in Gilberto la sola persona che poteva aiutarla a rispondere alle sue domande.
In lui era rimasto il dubbio, ultimo legame con il sangue versato da Amparo e dagli altri accanto ai quali aveva combattuto la guerra perduta. La perplessità di fronte a un mondo nel quale prevalevano non solo poteri, ma anche aspirazioni e comportamenti che loro avevano contrastato inutilmente. Proprio il fatto di non riuscire a farsi un’opinione riguardo alla realtà cui si era illuso di sottrarsi, tuttavia, lo aveva indotto ad assecondare le richieste di Rebeca e degli altri.

Così erano arrivati i furgoni degli operai, il camion con il traliccio, la betoniera che aveva versato il calcestruzzo per saldarlo al terreno scavato da una piccola ruspa e i tecnici che avevano installato le componenti elettroniche. E anche lui si era ritrovato tra le mani uno strumento che lo immergeva nel mondo dal quale si era illuso di potersi estraniare per sempre.   


19

Ascanio Ascani di Torresecca si avvicinò maggiormente ad Aurora e le cinse le spalle con il braccio destro senza dir nulla. Immobili con i volti accostati alle vetrate osservavano il vento rabbioso che piegava le piante di granoturco e faceva turbinare la pioggia e la grandine nella luce che il temporale arrivato improvviso aveva attenuato e tinto di colori malati.
A pochi metri da loro, oltre la rete che separava il giardino dai campi, il mais tentava di resistere alle raffiche che si succedevano senza sosta e si facevano più rabbiose col passare dei minuti.
Alzando lo sguardo per osservare oltre le foglie più alte che ondeggiavano quasi disperatamente, Ascanio vedeva il susseguirsi di vortici di pioggia che, come piccole nuvole bianche, percorrevano ora la campagna da ponente, non più da oriente, segno che la proprietà di Aurora si trovava al centro della perturbazione e che davanti a loro si stava forse formando una tromba d’aria.
Si guardò bene dal parlare del proprio timore e piegò la testa a sinistra per osservare Pezza, che adagiata ai suoi piedi guaiva piano. Anche Daisy e Astro erano immobili a poca distanza da loro: l’insolita quiete rivelava anche nei cani la consapevolezza della violenza di quanto accadeva all’esterno.
Si chinò per accarezzare delicatamente la fronte di Pezza, arruffando piano per poi sistemarlo il folto pelo ormai imbiancato dal tempo. Lei smise di guaire e si distese più rilassata sul pavimento, godendo il contatto con la mano di Ascanio, che la fissava con tenerezza malinconica, incapace di allontanare dalla mente quanto Aurora gli aveva rivelato pochi giorni prima: Pezza aveva un tumore cerebrale.
Condivideva la decisione della sorella di lasciare che la malattia facesse il suo corso. Anche solo sottoporre Pezza a esami più approfonditi poteva esporla al rischio di morire: a oltre quindici anni d’età, l’anestesia generale necessaria per effettuare una risonanza magnetica poteva ucciderla. Assurdo anche solo ipotizzare un intervento chirurgico, che sicuramente si sarebbe rivelato un inutile passaggio crudele, una sofferenza che, senza garanzia di allungarla, avrebbe certo reso peggiore la vita di Pezza.
Quando riportò lo sguardo sulla campagna, Ascanio vide che la violenza della burrasca si andava attenuando, consentendo di osservare meglio gli effetti. Davanti a loro le piante di granoturco erano in gran parte allettate, stese quasi orizzontali, adagiate al terreno, in una posizione così innaturale da provocare un senso di sgomento e di tristezza poco diverso da quello provato nel riflettere sul destino di Pezza.
“La crudeltà della natura… - mormorò Aurora con voce calma - Distrugge quello che ha fatto nascere e crescere…”
“Non è detto che il raccolto sia perduto.”
“Lo dirà il tempo…”
Aurora si mosse e fece un cenno quasi impercettibile con la mano, invitandolo a seguirla fuori dallo studio verso la cucina.
Mentre lei preparava le ciotole per i cani, Ascanio mise sul fuoco la pentola dell’acqua per cuocere la pasta e aprì una bottiglia di Girapoggio. Il rosso vigoroso e intenso avrebbe forse attenuato il senso di smarrita tristezza di entrambi.
Pesati gli spaghetti, osservò Aurora che mescolava le numerose medicine nella razione destinata a Pezza. Si rese conto che gli occhi gli si inumidivano nel pensare che, presto o tardi, inevitabilmente, la sorella si sarebbe trovata nella condizione di dover decidere se la sofferenza della dolce e affettuosa meticcia andava interrotta.
Come altre volte da quando aveva saputo della malattia, Ascanio non poté evitare di chiedersi se fosse giusto che l’uomo decidesse per il cane. Il dubbio non riguardava la sorella, ma tutti i padroni di un cane. Già parlare di padrone a proposito di un essere vivente pareva ad Ascanio un abuso, una forzatura intollerabile.
E ancora, nel riflettere sulla decisione che Aurora si sarebbe trovata a dover prendere, Ascanio pensò a quanti si permettevano di stabilire limiti alle scelte individuali di ogni cittadino italiano. Un arbitrio, una violenta e inaccettabile interferenza nella libertà di ogni persona di disporre della propria esistenza, soprattutto in condizioni che la rendessero non più adeguata alla aspettative e alle necessità individuali.
Nel vedere Pezza avvicinarsi alla ciotola e iniziare a mangiare con avidità anche maggiore rispetto al passato, Ascanio sorrise con tenerezza e con sollievo, incline a pensare che ancora avesse davanti a lei alcuni mesi in cui sarebbe stata vivace e allegra, una compagna meravigliosa per Aurora e per Daisy e Astro. E anche per lui, che pure trascorreva con loro solo qualche giorno ogni tanto.
“Musica?”
Alla domanda di Aurora Ascanio si limitò a rispondere muovendo appena la testa affermativamente.
Pochi istanti più tardi nella casa si diffusero le note del basso di Charles Mingus che precedevano quelle del sassofono alto di Eric Dolphy. Una delle versioni più belle di Stormy Weather che Ascanio avesse mai ascoltato. La musica, anche se tormentata, a tratti simile a un lamento, riusciva a rasserenarlo. Come sempre. 
Iniziò a tagliare il guanciale per la carbonara.


20


Aurora Ascani di Torresecca passò dall’incubo alla veglia di soprassalto. Le dita tremanti cercarono l’interruttore della luce sul comodino e l’accesero mentre si metteva seduta sul letto, respingendo dolcemente con i piedi i cani che le si erano immediatamente avvicinati, muovendo le code in modo che svelava quanto apprezzassero l’inattesa opportunità di manifestarle affetto in piena notte.
Il respiro e il battito del cuore erano ancora frenetici. Non riusciva a liberarsi del ricordo riapparso nel sogno. Si scoprì ad allungare la mano destra alla ricerca di un pacchetto di sigarette, come se fosse tornata indietro nel tempo, a quando aveva trascorso notti assai peggiori di quella.
Era accaduto nel periodo in cui ancora viveva a New York, e per diverse settimane, sino a quando aveva deciso di tornare in Italia, non solo durante il sonno, aveva rivisto innumerevoli volte le immagini impresse nella sua memoria la mattina dell’11 settembre, all’esterno del palazzo di Deutsche Bank, a poche decine di metri dalle Torri Gemelle, mentre si concedeva voluttuosamente un’ultima Marlboro prima di entrare per dirigere la riunione che l’attendeva. 
Il mondo era cambiato sotto i suoi occhi. Aurora lo aveva pensato immediatamente. Paralizzata a osservare le fiamme che avvolgevano la sommità della Torre Nord, pur non conoscendo le ragioni del fuoco divampato rabbioso dopo l’esplosione, da subito si era convinta che non vi potesse essere casualità in quell’evento e si era chiesta quanto profondamente quella tragedia avrebbe inciso sulla vita della gente in ogni angolo del pianeta.
L’inutile ricerca della sigaretta durò pochi istanti e quel gesto ormai assurdo la fece sorridere, aiutandola a tornare nel presente e attenuando la tensione. Avvicinò la mano alle teste dei cani, seduti davanti a lei in attesa di una carezza. Ne ricevettero molte, mentre Aurora riprendeva a respirare regolarmente e anche la frequenza cardiaca tornava normale.
Si rese conto che le dita indugiavano più a lungo su Pezza, i cui occhi le sembravano fissarla ormai in modo diverso. Più probabilmente, Aurora ci rifletteva spesso, era la sua sensibilità a essere mutata, a indurla a osservare ogni movimento e ogni comportamento di Pezza come un segnale di progresso della malattia.
Si chinò per sfiorare con le labbra la fronte di tutti e tre i cani, quindi si alzò dal letto e si mosse verso la porta, consapevole che non avrebbe ritrovato il sonno. Raggiunse lo studio seguita da Pezza, Daisy e Astro, sorridendo nel rendersi conto che, come sempre, ognuno dei tre cercava di starle più vicino, ma nella competizione non appariva mai nessun segno di violenza e, anzi, i loro movimenti sembravano un gioco, una sorta di recita replicata per lei, uno degli innumerevoli modi in cui cercavano di compiacerla.
Prima si sedere alla scrivania, ancora si chinò baciarli e con un gesto li invitò a prendere posto sotto il tavolo, subito esaudita.
Con movimenti automatici accese il computer e attese i pochi secondi necessari perché si avviasse, quindi lanciò Firefox e iniziò a esplorare le pagine dei quotidiani. Si susseguivano giorni turbolenti, ovunque nel mondo le vicende della politica le sembravano muoversi lungo crinali sempre più scoscesi, mettendo a rischio la debole stabilità di terreni che Aurora temeva potessero presto cedere e franare in maniera irrimediabile.
Ancora la mente tornò alle fiamme che avvolgevano la Torre Nord e ancora ripensò al timore maturato dentro di lei, quasi diciassette anni prima, in quel luminoso giorno di settembre.
Parlando con diversi amici e con i fratelli e le sorelle, Aurora aveva scoperto che non solo a New York l’estate aveva regalato una giornata bellissima, un cielo terso e un clima caldo, ma gradevolmente privo di umidità. Era accaduto in quasi tutta l’Europa continentale, ma anche nell’Inghilterra meridionale e altrove. 
Quasi tutte le capitali e le maggiori città europee avevano appreso dell’attacco in un giorno inondato dal sole. A lei era parso impossibile considerarla una coincidenza: non poteva essere frutto del caso che la distruzione delle Torri Gemelle fosse avvenuta in un giorno in cui il clima era stato splendido in alcune nazioni, quelle che, anche dopo l’11 settembre, avevano coltivato l’illusione di poter disporre arbitrariamente dei destini del mondo.
Il dissolversi dei due edifici, cui aveva assistito da lontano, dopo che, quando già il secondo aereo si era infilato nella Torre Sud, un vigile del fuoco l’aveva costretta a distogliere lo sguardo dai grattacieli che bruciavano e ad abbandonare la zona, aveva rappresentato per Aurora la conferma del contestuale dissolversi di certezze, di valori, di principi, di regole, di gerarchie intuito negli istanti successivi al primo impatto.
Si era sforzata di riprendere la sua vita, ma dopo pochi mesi aveva capito di non poter restare a New York e si era imbarcata per tornare in Italia, dove aveva acquistato l’azienda agricola e aveva lasciato alle proprie spalle non solo l’ambiente della finanza, nel quale aveva raggiunto presto prestigio e ricchezza, obiettivi cancellati dal suo orizzonte senza procurarle emozioni, ma anche le relazioni, rivelatesi fragili, condizionate dall’opportunismo e dalla consuetudine, di un ambiente chiuso, dal quale si usciva per sempre.
Scosse la testa leggendo un altro articolo che illustrava come, ancora una volta, la Turchia si fosse affidata alla prepotenza di Erdogan. E si scoprì a elencare mentalmente i paesi nei quali gli elettori avevano scelto uomini che avevano proposto troppo facili risposte ai bisogni delle loro interiora, preoccupandosi assai poco delle conseguenze delle promesse da cui si erano lasciati affascinare.
Aurora vedeva ricrearsi nel mondo condizioni simili a quelle che avevano provocato le due guerre più cruente della storia dell’umanità. Pensò con gratitudine e con malinconia al delicato equilibrio ricco di speranza e di condivisione costruito da pochi lungimiranti politici in cui aveva vissuto durante l’adolescenza, la giovinezza e parte della maturità. Ignoranza ed egoismo di tanti cittadini del mondo, che non capivano di essere tali, esponevano la sua vecchiaia ai pericoli ai quali, fortunatamente, erano sopravvissuti i suoi nonni e i suoi genitori.



21


Ascanio Ascani di Torresecca si asciugava osservando il proprio corpo nudo riflesso nello specchio. Anche lui faticava a scorgere la cicatrice dell’ernioplastica inguinale destra cui si era sottoposto diversi mesi prima. In superficie il luminare aveva fatto un ottimo lavoro. Sotto la pelle, però, le cose non andavano affatto bene.
Non era, tuttavia, il peggiore dei suoi guai.
Distolse lo sguardo dall’addome e lo spostò sul volto. Sorrise vagamente a se stesso, immaginando quell’intruso di sette o otto millimetri che si nascondeva dietro l’occhio sinistro. Ne conosceva l’esistenza da quasi dodici anni, da quando, casualmente, una risonanza magnetica, fatta per capire le origini della sua sordità, aveva rivelato la presenza di una neoplasia che il neuro-radiologo gli aveva comunicato, senza giri di parole, raggiungendolo nello spogliatoio, evidentemente ansioso di smontare in fretta per godersi il fine settimana di novembre.
Dopo avergli domandato se avesse avuto fenomeni epilettici, alla risposta negativa di Ascanio, quasi si trattasse di un nonnulla, quello gli aveva annunciato che aveva un tumore cerebrale.
Ascanio aveva replicato con un battuta stupida, adeguandosi al tenore impresso alla conversazione dallo specialista. Aveva detto qualcosa tipo “Non è certo la causa della mia stupidità”. L’altro aveva sorriso e se n’era andato salutando con un’espressione che, nel tempo, Ascanio avrebbe imparato a riconoscere nel volto di parte dei medici con i quali avrebbe dovuto parlare dell’inquilino abusivo collocato saldamente non troppo lontano dal centro della sua testa.
Dove era rimasto apparentemente tranquillo da quel venerdì di novembre di oltre undici anni prima, salvo decidere di prendere vigore negli ultimi tempi.
Ascanio gli aveva dedicato attenzione e ansia nell’immediatezza della scoperta, sottoponendosi a una TAC e a una seconda, più accurata e potente, risonanza magnetica. Poi aveva consultato tre neurochirurghi che, non sorprendentemente, avevano espresso opinioni assai diverse. Lui aveva deciso di dare ascolto a quella preferibile, confermata a distanza di sei mesi da una terza risonanza: lasciare tutto come stava. Controllare che la lesione, loro la chiamavano così, rimanesse silente o indolente, anche questi erano termini appresi dai medici. Una risonanza ogni sei mesi non gli era sembrata una concessione eccessiva. Anche il pensiero di quella presenza non gli aveva causato troppi fastidi. Ascanio le aveva dato spazio soltanto nell’imminenza della prenotazione dell’esame e dell’esame stesso. Certo, da qualche parte, nella sua mente, la consapevolezza del vermicello era presente, tuttavia non tanto da condizionare la sua vita.
Era rimasto abbastanza indifferente anche quando, a circa tre anni di distanza dalla scoperta, era parso che non fosse più così indolente o silente.
L’esito incerto di uno degli esami semestrali lo aveva, tuttavia, indotto a cambiare atteggiamento, soprattutto per rispetto verso la cugina sulle cui spalle aveva, arbitrariamente, scaricato il peso della questione, ignorando, consapevole, come le sue competenze di medico e anche il rapporto affettivo la rendessero inadatta al ruolo di referente clinico.
Avevano deciso insieme che era giunto il momento per Ascanio di consultare uno specialista di neuro-oncologia. La scelta era caduta su colei che era considerata una dei maggiori esperti italiani nel settore, primario del reparto di oncologia in un’ospedale di una città non troppo distante dalla sua.
Ascanio ricordava perfettamente il suo arrivo nel vasto piazzale sterrato che fungeva da parcheggio per la struttura nascosta dagli alberi sulle pendici della collina. Si era rapidamente orientato nel primo pomeriggio di un torrido giorno di giugno e aveva posteggiato la Subaru in una posizione che, sebbene ancora al sole, avrebbe garantito l’arrivo dell’ombra se, come temeva, la cosa sarebbe durata a lungo. 
E ricordava anche meglio l’incontro con la luminare, dal quale, se non avesse avuto un po’ di forza interiore, sarebbe uscito deciso a buttarsi nel primo corso d’acqua incontrato sulla via del ritorno.
Il quadro, dipinto con parole spicce e ruvide dalla dottoressa, era di quelli che si potevano osservare solo se in possesso di autocontrollo e di razionalità. Ascanio era riuscito e, dopo i due esami prescritti dalla luminare, si era trovato, con indubbio sollievo, a osservare una ben diversa immagine. Lei, però, anche nel secondo incontro, aveva insistito nell’usare i toni più cupi, incurante del fatto che la contraddicevano proprio gli accertamenti che aveva prescritto: Ascanio avrebbe dovuto farsi aprire la testa, sempre che trovasse un chirurgo disposto a farlo, e sperare che fosse possibile rimuovere interamente la lesione. Ascanio non le aveva dato retta, non completamente: le aveva detto che intendeva solo sottoporsi ancora a risonanza e Pet per verificare se la malattia stava effettivamente progredendo. Lei aveva suggerito di farlo entro tre mesi; lui si era adeguato ai tempi indicati, ignorando il resto. E i colori dipinti dalla specialista si erano rapidamente dissolti, lasciando la tela quasi completamente bianca, esattamente com’era stata sino a pochi mesi prima dei loro incontri.
Erano trascorsi gli anni, scanditi da risonanze via via meno frequenti, sino a quella di un giovedì all’inizio di un’altra estate, più piovosa delle precedenti. L’esame era durato un’ora, quindici o venti minuti meno dei precedenti. E quando Ascanio era uscito dalla stanza che ospitava il nuovo macchinario della neuro-radiologia di V., il Dottor A., solitamente pronto a dargli notizie rassicuranti, si era tenuto lontano, insinuando in lui il sospetto che, pochi giorni più tardi, aveva trovato conferma nelle parole del referto.
Millimetrico aumento di volume della nota lesione… Apprezzabile solamente nota di lieve incremento della neoangiogenesi…
Le cose stavano cambiando. E Ascanio non poteva evitare di pensare al fatto che, nelle settimane o nei mesi in cui, probabilmente, il suo inquilino si era risvegliato e messo in movimento, Pezza, la sua prediletta tra i cani della sorella, aveva mostrato i segni di una malattia simile.
“Fanculo! La mia vita continua e finisce come decido io”.
Si vestì e raggiunse Aurora in cucina, inginocchiandosi per coccolare Pezza che ormai non riusciva più a sollevarsi sulle zampe posteriori per manifestargli il suo straordinario affetto come avrebbe desiderato.

Nella casa risuonavano le note di Trois morceaux après des hymnes byzantins II eseguito da Anja Lechner e Vassilis Tsabropoulos, un brano appena un po’ malinconico che, Aurora lo conosceva bene, lo aiutava a dimenticarsi della malattia e a concentrarsi nella preparazione della cena.


22


Ginevra Ascani di Torresecca osservò Gilberto muoversi lentamente nel giardino che circondava la casa di Aurora. Accanto a lei, anche Florence e Ascanio osservavano il faticoso procedere del fratello e zio, la cui presenza in Italia ancora tutti consideravano incredibile più che sorprendente.
Era il pomeriggio di uno strano giorno d’inizio autunno, afoso, con una foschia cupa che a tratti si frapponeva al sole, senza impedire che spargesse il suo calore sul terreno intriso di pioggia.
“Avresti mai pensato che sarebbe tornato, Ascanio?”
“No, Florence. Ho sempre creduto che Gilberto non avrebbe mai rimesso piede nel nostro paese. E, anche adesso che è qui, stento a credere ai miei occhi… - Ascanio fece una lunga pausa, osservando il giovane uomo intento a scavare una piccola fossa tra i due alberi bassi accanto ai quali stava Aurora con Daisy e Astro accovacciati ai suoi piedi - Non mi stupisce, però, che sia tornato per assistere alla sepoltura di Pezza. Gilberto ha sempre amato gli animali e Aurora mi ha raccontato del suo primo viaggio in Nicaragua, quando lui l’aveva rimproverata per aver lasciato i cani fuori dalla sua casa per una decina di minuti senza acqua… Lei dice che quel momento è stato importante perché, nel redarguirla, Gilberto è parso emergere dalla propria scontrosa abulia”.
“Era l’occasione che aspettava… - disse Ginevra con tono piatto, nel quale non riuscì a nascondere l’ironia irriverente che, con il trascorrere degli anni, si era fatta il tratto più evidente del carattere - Probabilmente…”
“A volte sei persino più sprezzante di mio padre - Florence scosse la testa, visibilmente irritata con la madre adottiva -. Gilberto non avrebbe mai fatto nulla di quello che ha fatto negli ultimi mesi se noi non avessimo insistito perché lui cambiasse il suo modo di vivere”. 
Ascanio mosse due volte il capo in segno di assenso e sorrise appena, ma non parlò, lasciando allo sguardo il compito di offrire a Florence un’ulteriore conferma che condivideva senza esitazioni le sue parole e che la sosteneva.
Ginevra parve intenzionata a replicare, ma rimase lei pure silenziosa. Aurora si stava avvicinando alla fossa scavata da Luigi: teneva tra le mani la piccola scatola rosa che conteneva le ceneri di Pezza.
Obbedendo all’invito che tutti colsero il quel movimento, anche Ginevra, Florence, Ascanio e Gilberto raggiunsero il luogo dove avrebbe riposato la meticcia che Aurora si era rassegnata a far sopprimere una decina di giorni prima.
Sotto gli alberi, l’umidità era persino più opprimente e il sudore che scendeva dalle fronti di tutti si mescolò alle lacrime apparse nei loro occhi mentre Aurora deponeva con delicatezza il contenitore sulla scura terra lucida.
Inginocchiata, Aurora sistemò la scatola con cura, posizionandola al centro della buca, poi prese con la destra una manciata di terra e la sparse piano sulla superficie dell’urna, sgranandola così da renderla il più possibile minuta. Rimase poi immobile a lungo, lo sguardo velato di pianto fisso sui ricordi che stava seppellendo, così da conservarli più saldi dentro di sé.
Quando accennò ad alzarsi, le mani di Gilberto la sostennero e il suo sorriso addolcì, senza attenuarla, la malinconia irrimediabile di Aurora.
Non appena lei lo guardò per rassicurarlo, il fratello staccò le mani dal suo corpo, si chinò e prese lui pure una manciata di terra e la fece cadere sopra quella sparsa dalla sorella. Poi anche Ginevra, Florence e Ascanio replicarono il gesto, avvicinandosi ulteriormente ad Aurora, così che i loro corpi si sfioravano mentre Luigi iniziava a chiudere la buca con il badile, muovendolo piano, quasi con cautela, non diversamente da come avrebbero fatto loro.
Rimasero uno accanto all’altro fino a quando il giovane ebbe terminato. Allora Aurora si mosse e abbracciò Luigi e lo ringraziò. Lui sorrise appena, salutò e si allontanò rapidamente. In quel momento Ascanio ebbe l’impressione che le dita di Gilberto si muovessero appena, forse replicando quasi furtivamente un gesto non più compiuto da decine di anni.
Alcune ore più tardi, sedevano attorno al tavolo nella grande cucina, dopo aver consumato la cena allestita da Ascanio usando, per preparare il risotto e per accompagnare l’anatra al forno, i piopparelli raccolti il giorno prima ai piedi di vari alberi nel giardino e nella campagna di Aurora.
“Non hai detto una parola da quando siamo tornati in casa, Gilberto - disse Florence osservando con dolcezza lo zio - Sei così taciturno…”

“Ho detto più parole oggi di quante abitualmente ne dica in molti giorni, Florence - Gilberto le sorrise - E non sentivo attorno a me un silenzio tale da indurmi a parlare… Il silenzio, in realtà, non mi induce mai a parlare… lo ascolto volentieri. Solitudine e silenzio camminano insieme.”



23

Ascanio Ascani di Torresecca camminava piano, sotto il portico di una strada stretta, a ridosso del centro di B. Benché fosse arrivato l’autunno, muovendosi nelle ore centrali della giornata, cercava nell’ombra riparo dal sole ancora caldo.
Lo sguardo fissava quasi costantemente il marciapiede pochi metri davanti a lui, assai di rado lo sollevava per osservare lontano. Si trattava di un cambiamento di abitudini di cui si era reso conto soltanto da alcune settimane. 
Prima del manifestarsi della malattia, quando si era mosso in fretta per raggiungere una meta, i suoi occhi avevano guardato diritto davanti a lui, lontano, con la sicurezza che, comunque, avrebbe intuito e memorizzato eventuali ostacoli. Ora passeggiava in modo assai diverso, per fare un po’ di esercizio fisico, e, in conseguenza della debolezza e dell’intontimento che avvolgeva la testa quasi costantemente, avvertiva il bisogno di controllare sempre i punti su cui stava per posare i piedi, preoccupato che una buca o una pietra sconnessa lo facesse inciampare o persino cadere.
Pur attento a dove metteva i piedi e nonostante il senso di ottundimento, riusciva a proseguire le proprie riflessioni. La morte era spesso presente, come in quel momento, nei suoi pensieri, ma si accompagnava alla vita, più di frequente ai ricordi della vita, degli anni più o meno immersi nel passato.
Quel giorno rifletteva sui luoghi della sua esistenza e si andava convincendo che fossero luoghi della sua esistenza anche quelli nei quali non aveva trascorso anni o mesi o neppure settimane. Certo, in senso stretto poteva dire di aver vissuto solo a B., a Milano, a New York, a Toronto e, naturalmente a V., pure ricordava con la medesima emozione e con il medesimo senso di pienezza le ore, molte meno, passate a Kyoto piuttosto che a Hanging Rock, a San Francisco piuttosto che a Milford Sound e altrove. Ricordi che si accompagnavano alla consapevolezza di essere stato un privilegiato, parte della minoranza dell’umanità alla quale la sorte concede la possibilità di muoversi nel mondo. Ascanio provava una gratitudine indispensabile verso il destino che, mettendolo al mondo in una famiglia benestante, gli aveva evitato la condanna a non vedere altro rispetto allo spazio in cui era nato e quella, peggiore, a percorrere in esso tutto il proprio cammino.
Con trascurabili eccezioni, i suoi ricordi più intensi e più cari erano legati a luoghi poco o nulla contaminati dall’uomo e, anche quelli che erano irrimediabilmente vincolati ad ambienti urbani, si concentravano su alcuni nei quali lo sguardo aveva potuto muoversi un po’ liberamente, senza vincoli di troppi edifici.
Ascanio riconosceva in questo i segni della sua natura solitaria, appagata dalla distanza dai propri simili e anche dai segni della loro esistenza. In quei luoghi appartati si era sentito in pace con se stesso, aveva addirittura respirato diversamente, percepito lo scorrere della sua vita in maniera del tutto diversa e più giusta, più piena e più serena, forse anche più dolce.
Sapeva perché dalla sua memoria faceva riemergere quei ricordi. Dentro di lui, da quando avvertiva più pesantemente i disturbi provocati dalla malattia e aveva maturato completamente la decisione su come affrontare la situazione, si abbandonava volentieri a quelle che qualcuno avrebbe considerato fantasticherie morbose. Opinione cui Ascanio poteva anche riconoscere un qualche valore, ma solo limitatamente all’orientamento del singolo, non in generale. Le decisioni sulla vita appartengono solo a chi la vive. Soprattutto quelle sul modo e sul momento in cui essa deve concludersi. E lui, a riguardo, aveva già deciso il modo e sentiva che il momento si avvicinava.
Si rese conto di sorridere. L’idea della morte, ormai, era più che mai parte della sua vita, non il suo contrario, inesorabilmente. E gli procurava sollievo e serenità immaginare di concludere la propria esistenza in uno dei luoghi di cui serbava un ricordo particolarmente caro.
Sapeva che non sarebbe riuscito a farlo in alcuni dei più amati. Molti di quei luoghi erano troppo lontani, irraggiungibili nelle sue condizioni. Pure era bello pensare di chiudere gli occhi davanti alla bellezza rasserenante di un giardino zen piuttosto che a quella imponente di rocce maestose che s’immergono nelle acque blu di un fiordo in un territorio quasi inabitato.
Immaginava facilmente se stesso seduto, con l’ultimo sigaro tra le dita, predisporsi a compiere i gesti del commiato, i gesti con i quali avrebbe posto fine ai suoi giorni, liberandosi dalla sofferenza e dal senso di inadeguatezza di sé che la malattia aveva reso ormai inaccettabile.
Avrebbe assaporato il fumo lentamente, con piacere, ritrovando la consapevolezza di andarsene prima di quanto, statisticamente, sarebbe stato prevedibile, ma senza delusione o, peggio, rancore verso la sorte. Vedeva il bicchiere mezzo pieno, non mezzo vuoto. Si considerava comunque fortunato: oltre ai luoghi cari della sua vita, nella memoria erano saldamente presenti i volti e i nomi di parenti, amici e compagni di scuola che se ne erano andati ben più giovani di lui. Tutti loro avrebbero senz’altro preferito avere avuto, anziché il proprio, il destino di Ascanio. E Ascanio non si sarebbe perdonato se avesse trascurato di tenere adeguato conto di ciò.
Ormai si avvicinava alla strada in cui abitava e quella che percorreva era assai più affollata delle viuzze nelle quali aveva camminato incontrando poche persone, delle quali, per fortuna, nessuna conosciuta.
Faticò a percorrere le ultime centinaia di metri, perché solo in parte protetti da portici sotto i quali trovare riparo dal sole autunnale, pallido, ma caldo.

Quando fu in casa, dopo aver bevuto alcuni sorsi d’acqua, si andò a sedere sul divano, ridestò il MacBook e attivò il collegamento a JAZZRADIO.com. Tra gli oltre trenta disponibili, scelse il canale Jazz Ballads, quello che negli ultimi tempi aveva iniziato a prediligere. Trasmettevano Autumn Nocturne eseguito da un quartetto guidato da Bryan Lynch e Bill Charlap. Ascanio pensò che fosse inappropriato, data l’ora, ma lo ascoltò con piacere: era piuttosto vivace e non vi era malinconia, salvo un accenno negli accordi conclusivi, nei quali, tuttavia, si inserivano note improvvisamente allegre e vitali, segno che ancora non era giunto il momento di chiudere gli occhi.


24

Aurora Ascani di Torresecca guardò Daisy saltare ancora una volta il fosso che, a sinistra, separava la capezzagna dall’appezzamento in cui il grano risplendeva, umido di rugiada, nel sole che ormai aveva dissolto la nebbia. Astro, invece, camminava stanco verso di lei tra le file di barbabietole spuntate da pochi giorni, la lingua protesa fuori dalla bocca, sfiatato dall’inutile tentativo di raggiungere una lepre.
Neppure osservare i cani che godevano la libertà e lo spazio offerti dalla campagna dava sollievo dalla malinconia. Anzi, la rendeva più pesante, perché avvertiva maggiormente l’assenza di Ascanio, che negli ultimi anni aveva spesso diviso con lei le passeggiate.
A tenere lontano il fratello non era la debolezza provocata dalla malattia, ma il blocco della mobilità introdotto per fronteggiare l’epidemia che stava colpendo in modo impietoso l’Italia.
Aurora aveva parlato con lui prima di uscire, avvertendo quanto Ascanio patisse non solo il divieto di compiere il breve tragitto da B., ma anche quello di uscire di casa tranne che per esigenze essenziali, così che era privato anche delle sue solitarie e lente camminate in città, unico sollievo, fisico e psicologico, nelle condizioni provocate dall’invadenza del tumore.
Anche la vita di Aurora era una po’ cambiata per le limitazioni, nulla, però, di inaccettabile. Poteva rinunciare a comprare qualche formaggio o qualche affettato pregiati nel negozio di E. Le sue giornate si susseguivano quasi identiche a prima dell’epidemia. Organizzava le attività in campagna, si concedeva le due passeggiate quotidiane con Daisy e Astro, leggeva i giornali in rete, più volentieri i suoi libri, ascoltava la musica che amava, gestiva il suo patrimonio, la sera guardava film o serie tv o ancora leggeva, sorseggiando un buon vino. Non le mancava nulla.
Sfiorò con la mano la testa di Astro e richiamò Daisy: era ora di rientrare in casa. I cani le si affiancarono e camminarono lentamente accanto a lei, stancati dalle corse e dal caldo, innaturale per i primi giorni di primavera.
Quando raggiunsero il cancello, Aurora sentì, come ogni giorno, il bisogno di osservare la lapide che ricopriva il punto in cui aveva seppellito la ceneri di Pezza. Quel gesto, il movimento del capo per posare lo sguardo sul marmo chiaro che riportava il nome e le date agli estremi della vita del cane, aveva assunto un nuovo significato negli ultimi giorni, aggiungendo senso di colpa al dolore ancora profondo per la perdita: inevitabile pensare che, per chi l’epidemia strappava alla vita, non c’era una cerimonia funebre neppure paragonabile a quella riservata a Pezza, per la quale persino Gilberto aveva fatto ritorno in Italia dopo tanti anni. 
Aurora scrollò piano la testa mentre chiudeva la serratura del cancello pedonale. Osservò i cani che si avviavano veloci verso il porticato, dove avrebbero trovato acqua per dissetarsi. E ripetè a sé stessa, ancora con senso di colpa, di essere privilegiata. Seguì Astro e Daisy immaginando le strade e le piazze vuote di B., i volti dei pochi passanti nascosti dalle mascherine, gli sguardi preoccupati e smarriti, le saracinesche abbassate, immagini impresse dentro di lei grazie alle descrizioni asciutte, quasi asettiche di Ascanio, il quale guardava alla vita ormai con distacco che, tuttavia, non impediva la capacità di narrare vividamente e con dolore ciò di cui era testimone.
Niente, nella loro vita, le appariva paragonabile a ciò che stava accadendo. Grazie alla ricchezza della famiglia, Aurora e i fratelli avevano goduto anche più pienamente dei loro coetanei del benessere diffusosi dagli anni 60. Solo nell’ultima parte del decennio successivo, quando il terrorismo aveva colpito duramente il paese, le loro esistenze erano state un po’ alterate: maggiore prudenza nella scelta delle persone con cui entrare in confidenza, frequenti contatti con le forze di polizia, presenti nelle strade assai più che in passato e particolarmente rigide nel controllare i giovani, rinuncia a qualche concerto per il timore di attentati. Allora le erano parse condizioni sgradevoli, motivo di discussione con i genitori, limitazioni alla sua esuberanza adolescenziale, avida di feste, di compagnia, di ragazzi, di cinema, di ogni possibile svago.
Ora quasi si vergognava dei sentimenti di quegli anni, della sciocca rabbia provata per quelle che erano state insignificanti rinunce. I tanti concerti venuti dopo non riusciva neppure a ricordarli. Non dimenticava, invece, la noia delle sciocche chiacchiere con le amiche. Così come le scopate insoddisfacenti e i brutti film e le ore perse illudendosi di divertirsi. Quando si ha tutto…
Le generazioni come la sua non avevano compreso la generosità del destino. Aurora, però, si augurava che, nel momento in cui il virus devastava l’esistenza di tutti, di alcuni in modo tale che difficilmente sarebbe tornata la stessa prima di anni, quelli della sua età avrebbero saputo ricordare i racconti dei nonni e dei genitori, donne e uomini che avevano vissuto due guerre spaventose, la miseria e le atrocità che avevano portato con sé, il dolore per le morti e le distruzioni, il dubbio di poter mai condurre nuovamente una vita decente, finalmente dignitosa.
L’umanità, forse, aveva bisogno di ritrovarsi di fronte alla sua fragilità, alla sua inesorabile impotenza davanti a forze che si era illusa di controllare, addirittura di poter vincere sempre e comunque.
Per Aurora, in qualche modo, era più facile convivere con ciò che accadeva. Oltre che sulla forza della memoria, poteva contare sulla solidità del patrimonio, sulla fertilità della terra che avrebbe continuato a coltivare, sulla fermezza del carattere arrotato dagli anni trascorsi a cercare ogni giorno il successo e i guadagni nei mercati finanziari. Un pensiero che, però, non le procurava nessun sollievo, aggiungeva, anzi, tormento alle sue riflessioni, al pensiero di ciò che accadeva alla maggior parte degli altri. Un pensiero reso tanto più angosciante dalla convinzione che ben pochi, tra quanti avevano tra le mani i destini dei propri concittadini, fossero all’altezza del compito e, peggio ancora, si rendessero conto di quali conseguenze comportavano per milioni di persone le decisioni che prendevano. 
Entrò in casa seguita da Daisy e Astro e sedette al computer. Aprì la cartella della musica e cercò un brano eseguito da Bill Evans, un famoso standard composto da Herb Ellis, John Frigo e Lou Carter: “Detour Ahead”. Si poteva solo sperare che presto la direzione cambiasse. Presto.



25

Ascanio Ascani di Torresecca uscì dal negozio stringendo i manici dei tre sacchetti che contenevano i regali per Aurora, Ginevra e Florence: tre vasi Micheluzzi eguali nella forma e nelle dimensioni, diversi nei colori del vetro. I regali sarebbero stati aperti nel medesimo luogo e nello stesso momento e gli era parso preferibile che non fossero identici, anche se la decisione non era stata priva di esitazioni e ancora si chiedeva se fosse stata la scelta giusta.
S’incamminò lentamente verso casa, cercando di tenersi lontano dal flusso di gente che affollava l’area pedonale. A spingerlo alla prudenza non era solo la paura che qualcuno urtasse i suoi pacchi rompendone il contenuto. Da mesi, ormai, il suo precario equilibrio alimentava il timore che un contatto troppo violento lo facesse cadere. Una paura resa tanto più intensa dal numero di persone che, nell’imminenza del Natale, riempiva le strade nel cuore di B.
Ad Ascanio sembrava di essere tornato indietro di quasi trent’anni, all’inizio dei Novanta. Allora, nei giorni precedenti il Natale, vie e piazze si riempivano ancora al punto che, a tratti, non si riusciva neppure a procedere nella ressa di gente ansiosa di celebrare il rito convulso dell’acquisto dei regali, parte dei quali probabilmente inutili, motivati da una propensione al consumo in cui spesso trasparivano esibizionismo e altri atteggiamenti non migliori.
Poi, per effetto di tante concause, il centro storico si era svuotato di gran parte dei clienti in modo progressivo. Un fenomeno del quale Ascanio si era reso conto con chiarezza anche in altri momenti dell’anno, ma non quanto nel periodo natalizio. La gente non aveva solo modificato i propri percorsi nel fare acquisti: la frenesia di spendere, che Ascanio non aveva mai compreso e condiviso, sembrava essersi molto attenuata, soprattutto dopo la crisi del 2008, un fatto che lui era portato a osservare con qualche favore. 
Il tempo, però, sembrava essersi riavvolto su se stesso.
Non era difficile spiegarsi perché il Natale del 2020 facesse riapparire intenso il desiderio di spendere, quella voglia di festeggiare la ricorrenza facendo doni anche a persone che, forse, solo dodici mesi prima non sarebbero state destinatarie neppure di auguri. Dietro i volti nascosti dalle mascherine ad Ascanio pareva di intuire sorrisi, coerenti con gli sguardi allegri, espressioni di una felicità incontenibile per la convivenza raggiunta con il virus. Certo: ancora molti si ammalavano e non pochi morivano, ma per gli altri, per i fortunati, la vita continuava e solo questo doveva sembrare un motivo di gioia da condividere con pacchi da mettere sotto alberi addobbati e illuminati al meglio. E anche lui, questa volta, non aveva saputo impedirsi di cedere, sia pure limitandosi ad acquistare doni solo per le poche persone cui si sentiva legato da affetto.
Fu costretto a rallentare il passo per l’improvviso apparire di un dolore che, originato nelle dita del piede sinistro, si diffuse rapidamente all’intera pianta. Quando anche il destro iniziò a far male, Ascanio si risvegliò. 
Subito l’istinto lo spinse a cambiare la posizione dei piedi, alla ricerca di sollievo dalla sofferenza che lo aveva strappato dal sonno. I movimenti cauti delle gambe e delle caviglie non gli procurarono, però, che un modesto beneficio, tanto che si andò convincendo che il dolore, come altre volte, gli avrebbe impedito di riprendere a dormire come avrebbe voluto. Volse la testa verso la finestra vicino al letto, per vedere se la luce filtrava attraverso le piccole fessure lungo le corsie in cui scorreva la tapparella. Fuori era ancora buio. Allungò la mano e attivò l’iPhone, appoggiato acceso sul comodino. Erano passati pochi minuti dalle cinque di quella che non era una fredda alba precedente il Natale, ma una mattina di fine aprile, nel cuore di una Primavera iniziata con un’ondata di caldo anomalo.
Mosse ancora cautamente le gambe, cercando un sollievo dal dolore che non arrivò. Si permise un’imprecazione soffiata tra le labbra, quindi iniziò a ripercorrere le immagini del sogno, il cui ricordo era nitido nella sua mente, fatto non più inconsueto, che attribuiva al risveglio repentino. Accadeva così da mesi, da quando aveva smesso di dormire a lungo e profondamente, condizione che, come gli aveva spiegato lo psicanalista, consentiva di conservare memoria migliore dei sogni.
Pur sorpreso dalle immagini e dalle emozioni che la sua mente aveva saputo creare, Ascanio ne apprezzava la verosimiglianza e pensava che il prossimo Natale sarebbe stato proprio come lo aveva visto in sogno.
La frenesia degli acquisti sarebbe tornata, forse anche più prepotente che trent’anni prima. E incurante della povertà che l’epidemia aveva già diffuso tra le persone meno fortunate, quelle cui era toccato sopportare il peso maggiore di un sistema economico che, a giudizio di Ascanio, si era sviluppato lungo linee inadeguate, pericolose per l’umanità, oltre che per la salute del pianeta. L’obiettivo fondamentale sembrava quello di ridurre il reddito di molti per accrescere quello di pochi.
“Forse esageri, c’è anche altro, anche qualcosa di buono… - si disse Ascanio. Si strinse nelle spalle. Allungò la mano verso l’interruttore e accese la luce, consapevole che, anche se avesse provato, non avrebbe ritrovato il sonno - Anche stanotte se ne va così…”
Infilò gli occhiali, quindi prese il telefono e attivò il programma che consentiva di ascoltare la musica. Impiegò pochi istanti a trovare la canzone che intendeva ascoltare. Ne avviò la riproduzione e posò l’iPhone accanto a sé sul letto, mentre già le note di In The Deep si diffondevano nella stanza. 
Dopo pochi istanti sfogliava le pagine del piccolo libro che aveva iniziato a leggere la sera precedente, una raccolta di racconti di Ray Bradbury. Prima di riprendere la lettura là dove si era interrotta, scorse di nuovo i versi della poesia di Sara Teasdale citata nella prima novella, in cui si narrava l’incendio, nel 2026, dell’unica casa sopravvissuta a una guerra atomica. Le sofisticate tecnologie di cui dispone non impediscono che le fiamme divorino tutto, ponendo fine ai tanti riti automatici delle numerose macchine che la animano, ripetuti ogni giorno per nessuno, giacché degli abitanti restano solo le ombre, impresse su un muro esterno dall’esplosione della bomba. 

…e la Primavera stessa, al suo risveglio all'alba,
si renderebbe conto appena che noi ce ne siamo andati.

Ascanio ripetè alcune volte gli ultimi versi della poesia. E si chiese se non sarebbe stato giusto che la Primavera del 2020, a un prossimo risveglio, si accorgesse a stento che gli uomini erano scomparsi. Allontanò il pensiero, sia pure a fatica, incapace di scacciare completamente la riflessione che l’umanità si stava rivelando del tutto inadeguata alla posizione di predominio conquistata nel pianeta. Di nuovo si strinse nelle spalle. Poi sorrise. Si chiedeva che stagione si sarebbe risvegliata senza rendersi conto che lui se n’era andato. 
 
 
 
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Gilberto Ascani di Torresecca scendeva lentamente sul fianco del vulcano, osservando la propria ombra che, pian piano, si faceva più lunga davanti a lui. Ormai il villaggio si trovava a neppure un chilometro di distanza. Poteva osservare e riconoscere le persone che si muovevano tra le baracche o che lavoravano accanto ad esse, prevalentemente donne, impegnate negli orti o a preparare ingredienti da cucinare per la cena.
Nella mente di Gilberto si affacciava inevitabilmente il ricordo di quando, per la prima e unica volta, aveva osservato quel medesimo panorama. Ormai erano trascorsi molti anni, quasi quaranta. Anni durante i quali non si era mai allontanato che pochi metri dalla propria baracca. Fino a quel mattino di novembre, quando aveva sentito il desiderio di ripercorrere almeno un breve tratto del sentiero salito per raggiungere la vetta del Mombacho, dove aveva trascorso poi numerosi giorni prima di abbandonare il desiderio di uccidersi, sostituendolo con quello di scendere al piccolo villaggio e ottenere che lo lasciassero vivere lì.
A spingerlo a compiere quella breve passeggiata, causa di tollerabile sofferenza, era stato il desiderio di condividere, se possibile, quella più intensa e definitiva di Ascanio, che sapeva avvicinarsi alla morte dalle conversazioni via internet e dalle mail che si scambiavano quotidianamente, decisi entrambi a mantenere vivo l’affetto rinato in maniera improvvisa dopo la lunga separazione, che non aveva evidentemente spento il legame tra loro.
Mettendo prudente un piede davanti all’altro per raggiungere casa, Gilberto immaginava Ascanio faticare nello stesso modo sui marciapiedi di B., sotto i portici dei vecchi palazzi del centro, nell’atmosfera segnata dall’epidemia, difficile da comprendere anche per chi la viveva quotidianamente, più che mai nell’immutata quotidianità di un villaggio del Nicaragua in cui il virus appariva un nemico irreale, quasi insignificante per chi serbava ancora fresco il ricordo della fatica della sopravvivenza quotidiana. Una prospettiva non sbiadita di fronte all’affacciarsi dei cambiamenti prodotti dalla generosità di Gilberto, che aveva portato alcune delle comodità altrimenti impensabili.
Nella baracca si rinfrescò il volto immergendolo nel catino pieno di acqua versata dalla tanica. Quel gesto lo indusse a pensare che, di lì a qualche settimana, sarebbero finiti i lavori per collegare il villaggio all’acquedotto e a chiedersi, come altre innumerevoli volte, se avesse preso la giusta decisione destinando gran parte dell’eredità di Filiberto allo scopo di portare nel villaggio alcune delle condizioni normali nelle città.
La gratitudine degli altri abitanti, talvolta, lo induceva a superare i propri dubbi. In quel momento, tuttavia, Gilberto faticava a liberarsene. Anche volendo, non avrebbe potuto impedirsi di ricordare gli anni vissuti alla macchia accanto ad Amparo insieme ai guerriglieri cui si erano uniti come da lei voluto.
Sapeva che non aveva senso confrontare nulla alla durezza di quella vita, tuttavia i ricordi facevano riemergere le perplessità riguardo alle conseguenze dei cambiamenti che aveva deciso di introdurre nel modo di vivere del villaggio, alcune delle quali era ancora impossibile valutare.
Lentamente raggiunse la sua amaca e prese dal tavolino l’iPad. Controllò la posta elettronica e con sollievo vide che non c’erano nuovi messaggi. Chiuse il collegamento e si adagiò più comodamente, allungando le gambe indolenzite e doloranti. Sorrise chiedendosi se avrebbe nuovamente affrontato la fatica di percorrere qualche chilometro nella foresta e rispondendosi che lo avrebbe fatto ancora, e non solo per quella sorta di solidarietà verso Ascanio di cui nessuno avrebbe avuto conoscenza.
Chiuse gli occhi e lasciò che nella mente si riaffacciassero le immagini di Amparo. Nella memoria si presentavano sia quelle dei momenti di intimità, nei quali avevano vissuto la dolcezza del loro amore, sia quelle delle durezze condivise con gli altri guerriglieri sia quelle della morte di lei, le più dolorose da ricordare soprattutto ora che il pensiero della morte era più che mai presente per le condizioni di Ascanio.
Amparo aveva lottato contro la morte. Ascanio si preparava a darsela per porre fine non tanto alla sofferenza quanto alla mancanza di vita causata dalla malattia.
Gilberto poteva capire lo stato d’animo del fratello. In modo diverso, anche lui aveva a lungo vissuto la propria esistenza come se già fosse morto. La perdita di Amparo l’aveva resa vuota, inutile, irragionevole, ma gli era mancato il coraggio di farla finita. Ad Ascanio non sarebbe mancato, di questo Gilberto era certo. Lo percepiva nelle telefonate e nelle lettere. Risolte alcune questioni che voleva affrontare e sistemare senza lasciare che fosse Aurora a occuparsene, se ne sarebbe andato, avrebbe, come diceva, “messo la sua vita in un sacco della spazzatura”.
Riaprì gli occhi, ansioso di liberarsi dell’immagine della testa di Ascanio avvolta dalla plastica nera.



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Avere la consapevolezza del proprio limite è paradossalmente segno di grandezza di mente e di cuore.

Gianfranco Ravasi


Ascanio Ascani di Torresecca osservò gli occhi scivolosi di R.B., il chirurgo che, oltre quattro anni prima, lo aveva operato di ernia inguinale. Con che esiti lo sentiva ogni giorno, troppe volte, tante da giustificare la decisione di incontrarlo di nuovo e di come farlo.
“Qual è il suo problema, Signor… - R.B. guardò il foglio posato sulla scrivania accanto al MacBook - Signor Frigo?”
Nemmeno si preoccupava di chiedere se avesse diritto a un titolo. Sbrigativo e indifferente, come, pochi istanti prima, gli aveva indicato con sufficienza la sedia di fronte a lui. Ascanio pensò che anche il suo amico Roberto, che gli aveva consentito di servirsi della sua identità, avrebbe sorriso di fronte ai modi del chirurgo. Entrambi avevano smesso di dar peso a ciò che ne ha poco.
Ascanio studiò ancora lo sguardo scivoloso, poi fissò i lunghi capelli bianchi, anch’essi apparentemente scivolosi. Tornò a osservare gli occhi, alla ricerca di un segno che il suo aspetto risultasse familiare al chirurgo. Non ne vide e dentro di sé provò sollievo: la mascherina, la barba e il nome diverso, ma, più ancora, la frettolosa arroganza del chirurgo lo rendevano irriconoscibile. Poteva proseguire nel piano elaborato nelle precedenti settimane, quando il desiderio di vendetta gli era parso meritare soddisfazione, sia pure entro limiti netti e precisi, che avrebbe saputo rispettare. 
“Sono stato operato di ernia inguinale destra… quattro anni fa… non in Italia, purtroppo… Intervento riuscito male. Ho numerosi disturbi. Dolori e disturbi… più intensi con il passare del tempo. Peggiorano.”
“Dov’è stato operato? Intendo dire in che paese…”
“A Singapore - Ascanio evitò di sottolineare l’inutilità della precisazione di R.B., anche se era intrigante l’idea di farlo - Alexandra Hospital.”
“Si trovava lì per turismo? E’ stato operato d’urgenza?”
“No, vivevo lì allora. No, non è stato un intervento in urgenza, ma programmato. Potrebbe conoscere il chirurgo che mi hai operato…”
“Non credo… e, comunque, non ha importanza… Mi descriva i dolori e i disturbi.”
Ascanio lo fece, usando più o meno le stesse parole che aveva impiegato nel maggio del 2017, quando, a distanza di cinque mesi dall’intervento, aveva voluto incontrare il chirurgo con la speranza, rivelatasi illusione, che ne scaturisse una possibilità per liberarlo, almeno in parte, dalle tante conseguenze negative dell’ernioplastica.
La descrizione non richiedeva un livello di concentrazione tale da impedire ad Ascanio di ritrovare nella memoria un’immagine assai nitida dei suoi incontri con il chirurgo seduto davanti a lui. Il giorno precedente l’intervento, dopo tutti gli esami preliminari, nel primo pomeriggio R.B. aveva voluto vedere Ascanio nel proprio studio. Un incontro di pochi minuti, che si era svolto alla presenza di tre assistenti, tutte e tre donne, le quali erano rimaste in piedi una accanto all’altra appena dietro il loro direttore, il quale non era parso aver altro argomento che il vino, tema del quale lui e Ascanio avevano parlato brevemente durante la visita avvenuta un mese addietro, al termine della quale avevano deciso per l’operazione da effettuarsi in regime di libera professione.
Quelle chiacchiere inutili, che avevano fatto perdere tempo a lui, ma più ancora al chirurgo e alle assistenti, erano apparse una stravaganza spiegabile solo con la volontà di R.B. di affermare il proprio ruolo e il proprio potere, cui le tre donne, con la posizione e con l’atteggiamento verso il direttore, avevano dovuto dare conferma. 
Ascanio si accingeva a concludere la descrizione e osservava lo sguardo di R.B., che rimaneva scivoloso mentre ascoltava, ancora distante e distratto. Diversamente, però, da quando Ascanio, a pochi mesi dall’intervento, aveva detto parole quasi uguali, non si mostrava incredulo e non manifestava dubbi riguardo alla sintomatologia che gli veniva descritta. La misura delle cose, con ogni probabilità, cambia in base a quanto ci si sente coinvolti. E all’opinione di sé. E R.B. confermava in Ascanio la convinzione che l’intelligenza quasi mai s’accompagna a una troppo alta opinione di sé.
“Sì, è stato chiaro, Frigo - disse il chirurgo prima ancora che Ascanio terminasse - Ora la visito… si distenda sul lettino e scopra l’area interessata.”
L’esame fu rapido, eseguito prevalentemente in silenzio, interrotto dal chirurgo solo per confermare, a suo modo, quanto indicato da Ascanio, il quale, ancora, non potè evitare di pensare a come fosse diverso rispetto al passato l’atteggiamento di R.B., persino incline a commentare, sia pure prudentemente, l’operato del collega asiatico.
Una volta rivestito e seduto di fronte dal chirurgo, Ascanio lo ascoltò descrivere, abbastanza  in fretta, ciò che lui già sapeva; una spiegazione neppure troppo tecnica e svolta così da scaricare con discrezione, ma nitidamente, la colpa sul presunto artefice cinese degli errori. Seguì una proposta di intervento che, tuttavia, avrebbe potuto risolvere solo in parte i problemi, sebbene eseguito da chi li aveva perfettamente compresi e sapeva come affrontarli. A suo dire.
Quando R.B. ebbe terminato e lo guardò in attesa di conoscere la sua decisione, Ascanio si alzò senza aprire bocca e indossò il pesante giaccone, osservando divertito lo sconcerto del chirurgo.
“Mi chiamo Ascanio Ascani di Torresecca - disse dritto di fronte a lui, senza neppure sforzarsi di parlare con un tono di voce particolare, convinto che non fosse necessario - Il chirurgo di cui ha descritto gli errori è lei. Del suo operato si occuperanno gli specialisti svizzeri nella mia imminente autopsia. E se, come penso ora con maggior certezza, troveranno prova che lei ha eseguito l’intervento in modo inappropriato, saranno i miei avvocati a prendersi cura di lei, sia civilmente che penalmente, barone. Con la b minuscola.” 
Si voltò e uscì dall’ambulatorio. 



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Florence Ascani di Torresecca ridusse la velocità per osservare Hanging Rock che si avvicinava sulla sinistra: il sole del mezzogiorno primaverile lo illuminava così da far emergere le tonalità più chiare della pietra, ormai diventate per lei familiari, dato che vi tornava per la quinta volta in poche settimane, approfittando della libertà di movimento di cui beneficiava anche lei, come i residenti di Victoria.

A trattenerla a Melbourne, oltre alla relazione incerta, ma ancora intrigante con Derek e alle difficoltà, non proprio insormontabili, a tornare in Europa, contribuiva la possibilità di trascorrere le giornate nell’outback, immersa in una natura che esercitava su di lei un fascino intenso. Si sentiva accolta, quasi risucchiata dalle foreste di eucalipti e dal territorio che ancora non era stato trasformato in vigneti o in colture di altro genere. Vi si inoltrava a piedi con prudenza, timorosa di incontrare uno dei tanti letali abitanti nascosti nel sottobosco che andava seccandosi con il diradarsi delle piogge primaverili. 

In lei erano ancora vivi i ricordi del primo viaggio in Australia con il padre, quando avevano trascorso il giorno di Santo Stefano, Boxing Day, proprio a Hanging Rock. Li aveva accompagnati una guida turistica indicata dal concierge del Regent, una signora californiana trasferitasi a Melbourne con il matrimonio. Florence ne ricordava la simpatia, il garbo e il fascino discreto, che Filiberto aveva mostrato di apprezzare, flirtando con lei in maniera aperta e rispettosa, così da non metterla mai a disagio, ma, anzi, da favorire il crearsi tra loro di una piacevole confidenza che aveva reso più gradevoli le ore trascorse insieme. Si erano piaciuti, apertamente, senza possibilità di equivoci e men che meno di sfiorare il cattivo gusto. Il gioco tra un uomo e una donna, maturi e intelligenti, capaci di concedere alla propria attrazione reciproca il poco spazio che meritava, sfruttandolo per portare un piacevole fremito casto in una giornata altrimenti simile a troppe altre.

Tra i numerosi viaggi con il padre, Florence ricordava quello in Australia forse con maggiore emozione, sia perché avevano visitato luoghi di rara bellezza sia perché aveva preceduto l’inizio del lavoro insieme, conferma del loro essere una famiglia, sia pure diversa da quasi tutte le altre.

Parcheggiò l’auto nella stessa area in cui lo aveva fatto la guida oltre dieci anni prima e lei in tutte le precedenti occasioni: sotto gli eucalipti tra i cui rami si fermò a osservare i koala che si nutrivano pigramente delle foglie o che dormivano sulle forcelle dei tronchi, in quello che a Florence sembrava sempre un precario equilibrio.

Li guardò per qualche minuto, ancora intenerita da quella visione di armonia tra animali e piante, non facile da osservare altrove. Attribuiva alla solo recente presenza diffusa dell’uomo bianco, più consapevole e rispettosa che in luoghi diversi del mondo, la possibilità degli animali di vivere senza gravi condizionamenti. Quanto agli umani che avevano abitato l’Australia per millenni, Florence ne conosceva e apprezzava la rara capacità di coesistere con ciò che la natura aveva messo loro accanto, un’attitudine che poche popolazioni autoctone avevano mostrato con la determinazione degli aborigeni. La faceva rabbrividire il pensiero del prezzo pagato per questo, forse anche più alto, in certo modo, di quello pagato da altre popolazioni che i bianchi avevano sottomesso e sostituito, occupandone i territori.

Osservò una mamma koala stringere a sé il proprio piccolo con tenerezza, senza smettere di masticare le lunghe foglie, portandole alla bocca con le tozze zampe dalle unghie scure. Sorrise e si chinò per controllare che le scarpe sportive fossero ben allacciate, quindi s’incamminò verso il punto in cui iniziava la salita tra le rocce.

Come nelle precedenti occasioni le tornarono nitide alla mente le immagini del film di Peter Weir. Rivedeva le ragazze tenersi per mano, una dietro l’altra, camminando nell’alta erba secca prima di insinuarsi negli stretti passaggi tra le pietre.

Le pareva, ancora una volta, di muoversi con loro, e immaginava di indossare lei pure un candido abito lungo fino hai piedi e di avere i capelli trattenuti da nastri colorati. E alle immagini del film si sovrapponevano quelle delle gite fatte durante gli anni nel collegio svizzero, non così diverse, nonostante i tempi e i luoghi.

Iniziò a salire pensando che a spingerla a tornare a Hanging Rock era proprio il mescolarsi di ricordi reali e di finzione cinematografica, delle suggestioni della vita vissuta e di quelle della fantasia.

Nel percorrere il sentiero, accarezzava le rocce con le mani, non perché avesse bisogno di sorreggersi, ma perché le pareva di essere ancor più parte del luogo toccando la pietra scaldata dal sole, piacevolmente ruvida sotto le sue dita.

Camminava piano, studiando ora una fenditura di forma particolare ora il tronco di una pianta che si contorceva seguendo l’andamento di una roccia per trovare più luce. Dettagli sempre nuovi.



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Spero, come tutti, di vedere la fine di questo incubo del virus, ma ho paura anche di un dopo che non riesco a immaginare ma che intuisco radicalmente altro rispetto al mondo che ho conosciuto e rispetto al quale, anche senza il genio di Karl Kraus, non mi sento di dire nulla.

Claudio Magris


Aurora Ascani di Torresecca aprì la porta per far rientrare in casa Daisy e Astro. I cani la precedettero in cucina, muovendo le code allegramente, pronti a consumare i biscotti che erano il loro primo cibo della giornata.

Dopo aver messo tre pezzi per ognuno nelle ciotole, Aurora allestì la propria colazione e la consumò nel silenzio e nella fioca luce del mattino festivo, di un Natale che, diversamente dai precedenti, avrebbe trascorso in solitudine, senza la compagnia di Ascanio, trattenuto in città più dalla debolezza prodotta dalla malattia che dalle restrizioni imposte ai movimenti a causa della pandemia.

L’assenza del fratello la rattristava e provocava riflessioni ancor più malinconiche riguardo al futuro, nel quale sapeva che Ascanio non ci sarebbe più stato: le aveva detto apertamente che le sue risorse si erano ormai esaurite e che intendeva farla finita una volta iniziato il nuovo anno. La prospettiva di perderlo le appariva intollerabile, ma sapeva di doversi rassegnare, perché ormai lui soffriva troppo da troppo tempo e il cammino che aveva deciso di percorrere non prevedeva altra meta che la morte, comunque raggiunta.

Guardò Daisy e Astro, ora distesi una accanto all’altro sotto al tavolo al quale lei sedeva. Averli vicini attenuava, ma non allontanava la tristezza e il senso di sconforto che si accentuavano ormai da alcune settimane, da quando la seconda ondata del Covid-19 uccideva centinaia di persone e ne contagiava migliaia ogni giorno.

A tratti alla tristezza e allo sconforto si aggiungeva anche una rabbia profonda, impossibile da contenere perché a causarla era il comportamento della gente, che Aurora considerava imperdonabile.

Due giorni prima si era recata per un controllo dal dentista, che aveva lo studio nel pieno centro di B. e, per raggiungerlo dal garage nel quale aveva lasciato l’auto, Aurora era stata costretta a percorrere alcune delle principali strade pedonali in cui innumerevoli persone vivevano quei giorni prossimi al Natale senza preoccuparsi affatto di ciò che accadeva.

Ai tavolini tutti occupati dei bar, nei plateatici più estesi rispetto al passato, aveva visto seduti clienti che, nonostante l’ora, avevano davanti a loro bicchieri pieni di spriz o vino: in prevalenza ragazzi e giovani, ma anche persone più mature. In larga maggioranza le erano parsi allegri: le voci alte, non rare grida e risate anche sguaiate. Atteggiamenti che Aurora, pur sforzandosi, non riusciva a giudicare ragionevoli e, men che meno, adeguati a ciò che succedeva anche a poca distanza da lì, non solo nelle camere del vicino ospedale, cresciuto attraverso i secoli nel cuore della città.

C’era gente che soffriva e che moriva: gente che non avrebbe sofferto e che non sarebbe morta in assenza del virus, la cui diffusione quei comportamenti favorivano al punto da aver reso la regione di B. quella con i dati di contagio e mortalità peggiori in Italia. Indifferenza, superficialità, egoismo, stupidità, Aurora non trovava altre parole per spiegare, non certo giustificare.

Non mancava nei mezzi di comunicazione chi tendeva a motivare la reazione della maggioranza delle persone sottolineando che si trattava di generazioni che non avevano mai conosciuto esperienze devastanti paragonabili alla pandemia. Aurora, pur riconoscendo che era così, non poteva considerare una giustificazione il fatto che, nella vita dei nati dopo la Seconda Guerra, erano mancate sofferenze simili a quelle conosciute dalle generazioni precedenti, come le guerre mondiali e la povertà diffusa, la Grande Depressione e le dittature. 

Era portata a pensare che l’uomo non fosse mai preparato a vivere condizioni tragiche, di sofferenza intensa e continua, anche disperata, e di assenza della libertà. Non certo l’uomo moderno, formato dai cambiamenti profondi conosciuti grazie alle rivoluzioni del XVIII e XIX secolo, ai progressi della medicina, ai miglioramenti nelle condizioni di vita, alla trasformazione nei sistemi produttivi e negli ambienti di lavoro, per quanto tuttora sgradevoli in molti paesi e molti settori. No, per Aurora non c’era giustificazione possibile, anzi, proprio i progressi compiuti e la superiore qualità della vita avrebbero motivato reazioni assai diverse, dettate dalla consapevolezza che solo alcuni sacrifici, non facili da sopportare, ma tollerabili, avrebbero consentito il più rapido ritorno possibile a un’esistenza simile a quella precedente l’apparire del virus. Una vita che, comunque, non sarebbe mai tornata la stessa. E anche questo, come giustamente sottolineava Claudio Magris, avrebbe richiesto capacità di capire, di andare al di là, di superare le proprie aspettative più meschine, purtroppo in quel momento così prevalenti.



30



Ascanio Ascani di Torresecca osservò incredulo lo schermo del portatile: se avesse voluto, avrebbe potuto acquistare un biglietto della Singapore Airlines per volare da Malpensa ad Auckland. Tutte le altre cinque compagnie aeree con cui aveva provato a prenotare un volo con la stessa destinazione gli avevano negato la possibilità, indicando in vario modo che la pandemia la escludeva da quelle raggiungibili.

Scrollò la testa e chiuse il computer: non era in grado di intraprendere il viaggio, di raggiungere il luogo ardentemente desiderato come ultima meta, il più bello visto in tutta la sua vita, quello dove, se solo avesse potuto, avrebbe chiuso il percorso, posto fine a una vita alla quale si risvegliava ogni giorno con il desiderio di concluderla.

Si alzò dal divano e raggiunse la camera da letto per prendere un maglione più pesante. Camminava lentamente, a fatica, incerto sulle gambe cui la testa stentava a dare ordini, come accadeva ormai per gran parte del giorno. Le difficoltà nel movimento non lo avrebbero fermato: voleva uscire per fare la spesa, un compito che non avrebbe affidato a nessuno. Nel momento in cui si fosse reso conto di dover dipendere da qualcuno per le esigenze quotidiane, in quel momento si sarebbe ucciso. E, sia pure con qualche rimpianto, non lo avrebbe fatto a Te Anau, dove, consapevole che era sciocco, fantasticava da mesi di compiere il rito finale.

Aprì l’armadio e osservò i due abiti che conteneva, grigi e poco diversi tra loro. Non li indossava da qualche anno. Fece scorrere le dita sulla manica di uno, scostandola dal fianco della giacca e vide apparire un foro non molto grande, meno di mezzo centimetro un po’ sopra la fila di quattro bottoni. Sorrise nel vedere che le tarme non si erano fatte spaventare dai sacchetti di insetticida ed avevamo rosicchiato un passato per cui Ascanio non provava nessuna nostalgia. Non lo avrebbe fatto neppure in assenza della malattia. Guardava avanti, comunque. A quel niente che restava.

Si concesse, però, di ricordare serenamente il tempo in cui, giorno dopo giorno, aveva indossato completi così simili uno all’altro, accompagnati da camicie non meno discrete e da cravatte di Hermes, mai vistose, ma certo un tocco di ricercatezza, la sola nota che poteva attrarre attenzione nel suo abbigliamento sobrio, adeguato al suo ruolo all’interno della pubblica amministrazione, ma più ancora al suo nome e al suo modo di essere, discreto appunto, ma mai trascurato, dettato dal rispetto per gli altri che si manifestava prima di tutto attraverso il rispetto per se stesso.

Cambiato il pullover, lasciò la camera da letto e si preparò a uscire nella gelida mattina di quel gennaio, che la pandemia rendeva diverso da tutti quelli vissuti prima.

Come sempre evitò le strade più affollate per raggiungere le piazze centrali di B., dove avrebbe comperato il cibo necessario per un paio di giorni. Lo aveva fatto anche prima della pandemia, seguendo l’istinto che lo teneva lontano dalla folla, a maggior ragione lo faceva allora.

Davanti alla gastronomia c’erano un paio di persone in attesa di entrare. Ascanio chiese chi fosse l’ultimo in coda e si accostò a una colonna del portico, così da non disturbare il passaggio sullo stretto marciapiede, ma evitò di appoggiarvisi, anche se ne avrebbe tratto beneficio. 

Non dovette attendere molto, dopo una decina di minuti usciva dal negozio con il sacchetto in cui Antonella aveva accuratamente sistemato le vaschette di plastica con i cibi che aveva scelto, sperando che avrebbero saputo aiutarlo a vincere la difficoltà a mangiare.

Si avviò verso casa, consentendosi una variazione dal percorso più breve. Dentro di lui, ancora, qualcosa lo spingeva a mostrarsi vitale, a non cedere: un’istinto che lo stupiva, che lo infastidiva anche, perché s’incuneava sterile nel declino, lo negava quando più si faceva evidente e insopportabile.

Percorse la corta strada che conduceva da una ad altra delle tre piazze collegate tra loro nel cuore di B. e si fermò per qualche attimo a osservare la torre con orologio di fronte a lui, ammirandone la bellezza. Stava per incamminarsi nuovamente quando udì una voce di donna pronunciare il suo nome. Volse lo sguardo verso il punto da cui lo avevano chiamato e vide una signora che riconobbe subito, nonostante la mascherina. Le si avvicinò e la salutò augurandosi che lei percepisse il sorriso che le rivolgeva dietro la chirurgica che copriva gran parte del suo volto.

“Come sta, Professoressa Falconi? - disse dopo che lei ebbe ricambiato il saluto - Sono felice di vederla…”

“Anche per me è un piacere… Sto bene, per fortuna. Resisto agli anni e a questa inaudita malattia, Ascanio… Posso ancora chiamarla Ascanio?”

“Sì, certamente, Signora! - di nuovo le sorrise e sperò che lei se ne rendesse conto - Perché mai cambiare le buone abitudini… Mi dispiacerebbe molto se non lo facesse.”

Lei assentì senza dir nulla, ma anche il suo volto era sorridente. Ascanio intuì la domanda che lei si accingeva a porgli. Una domanda cui lui non desiderava rispondere e parlò così da evitarla.

“Mi dica di Lorenzo… come stanno lui, Federica e i bambini?”

“Stanno bene… lei non li sente, Ascanio?”

“Abbiamo smesso di scriverci da un paio d’anni… colpa mia - rispose. Era vero, con l’apparire della malattia aveva lasciato estinguersi, come quasi tutti gli altri, anche il rapporto con Lorenzo, figlio della professoressa e collega di lavoro emigrato in Canada dopo il secondo matrimonio - Sono contento che stiano bene… hanno la fortuna di vivere in un paese che probabilmente affronta il problema meglio di noi…”

“Sì… lo penso anch’io, ma è triste… questa pandemia mette a dura prova le istituzioni e le persone…”

Ascanio annui e ancora sorrise: il tono e le parole risvegliavano in lui il ricordo delle lezioni della Professoressa Falconi, sua insegnante di storia e filosofia al classico, ma c’era anche altro nel modo in cui lei aveva parlato.

“Se ricordo bene Guido ha sei anni e Stefania tre…”

“No, Guido ne ha compiuti sette il mese scorso, ma su Stefania ha ragione.”

La voce della professoressa gli parve cambiare ulteriormente e farsi più triste, così come lo sguardo dietro le lenti leggermente colorate di grigio degli occhiali da vista.

Ascanio comprese. La pandemia, in troppi casi, dilatava le distanze e le rendeva comunque incolmabili, impedendo di vivere gli affetti più preziosi, come quelli di una nonna e dei nipoti, privati della gioia di compiere insieme alcuni dei passi pur diversi delle loro vite. E di guardarsi mentre lo facevano.

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