domenica 24 settembre 2017

Aurora

Aurora Ascani di Torresecca aprì gli occhi nel buio della sua stanza, risvegliata dalla tosse che da alcuni giorni affliggeva Pezza. Prima di allungare la mano verso l’interruttore della lampada, guardò il quadrante della sveglia. Mancavano più di venti minuti alle sei del mattino. Accese la luce e allontanò lentamente le lenzuola, osservando i cani che si alzavano in piedi e, come ogni mattina, si avvicinavano al letto per celebrare il suo risveglio, ansiosi di riprendere la loro vita accanto a lei e di mostrarle quanto ciò li rendeva felici.

Nemmeno mezz’ora più tardi, camminava in campagna, nella foschia morbida e luminosa della mattina di fine settembre, diversa dalla nebbia dei mesi invernali, più spessa e gelida.
La fine dell’estate, arrivata improvvisa dopo giorni torridi e opprimenti, le procurava una tenue e dolce malinconia, nella quale si insinuava come un sorriso la piacevole impazienza per l’aprirsi di una nuova annata di lavoro.
Di lì a poco sarebbero arrivati i trattori per iniziare l’aratura. Aurora era grata alla tosse di Pezza che le aveva permesso di ripercorrere ancora una volta la campagna annusando nell’umidità del mattino l’odore dei raccolti prima che svanissero, sopraffatti da quello, non meno piacevole, della terra rovesciata dai vomeri e dagli altri attrezzi utilizzati per prepararla alle nuove semine.
La pioggia caduta nei giorni precedenti, oltre a imporre l’autunno, aveva risvegliato il ricordo olfattivo delle colture. Aurora avrebbe potuto distinguere, anche camminando a occhi chiusi accanto a un appezzamento, cosa era stato coltivato. Le barbabietole lasciavano dietro di sé un sentore dolciastro che poteva talvolta risultare sgradevole quando i residui erano stati calcinati da giorni di sole intenso, com’era accaduto quell’anno. Dai campi di granoturco emanava un odore più pungente e aspro, che le sembrava ricordare quello di alcuni whisky di puro malto. Le stoppie di frumento, il primo raccolto, spargevano nell’aria il profumo della paglia, forse il più nitido, reso più prepotente dalla lunga esposizione a oltre due mesi di sole estivo, quasi che il calore lo distillasse e lo concentrasse. Infine, ultima coltura trebbiata solo pochi giorni prima, la soia lasciava nell’aria un odore erbaceo, a volte percorso da tenui note legnose, prodotte dal fusto.
Aurora si arrestò nel crocevia delle capezzagne, all’ombra dei quattro pioppi cipressini che aveva fatto trapiantare pochi giorni dopo aver preso possesso del fondo. Si chinò a guardare se tra l’erba folta che cresceva ai piedi dei tronchi si nascondevano i piopparelli. Ne vide alcuni appena spuntati dal suolo, ancora di un intenso colore bruno. Decise di lasciarli lì, pur consapevole che, l’indomani, avrebbe potuto non trovarli più: la sua proprietà, come quelle di quasi tutti, era percorsa da tanti che si consideravano autorizzati a raccoglierne i frutti, come se non fossero, appunto, nati nel terreno di Aurora e, quindi, appartenessero a lei.
Mentre si raddrizzava, Astro saltò avvicinando il muso al suo volto e la leccò sulla guancia, ottenendo in cambio carezze sul dorso e sull’addome, alle quali reagì muovendo la zampa posteriore destra come se volesse grattarsi là dove i polpastrelli di Aurora percorrevano il suo pelo folto.
Come sempre, la reazione istintiva del cane la fece sorridere e l’aiutò a liberarsi dall’irritazione provocata dal pensiero che i suoi funghi sarebbero finiti nel piatto di qualcun altro e non nel suo.
Ancora sorridendo prese dalla tasca lo smartphone e aprì l’archivio dei brani musicali. Anche se la qualità della riproduzione era mediocre, spesso le piaceva ascoltare i suoi pezzi preferiti mentre camminava in campagna con Pezza, Daisy e Astro.
L’avvicinarsi del rumore di motori la indusse a distogliere lo sguardo dallo schermo e a volgerlo in direzione dell’accesso al fondo. Ormai il tepore del sole aveva dissolto la foschia e Aurora poteva vedere i due trattori rossi che si fermavano all’inizio della capezzagna che percorreva la proprietà nel senso della lunghezza. Dopo qualche istante, ripresero a muoversi. Il più grosso si portò accanto al fosso che segnava il confine occidentale, mentre il più piccolo raggiungeva quello orientale. Aurora li osservò, intuendo che gli aratri venivano abbassati e posizionati per iniziare a penetrare nel terreno e rivoltarlo.
Tornò a guardare lo schermo del telefono e avviò la riproduzione di Harvest Time di Pharoah Sanders. Rimase ad ascoltarlo, immobile spostando lo sguardo da un trattore all’altro, immaginando l’odore della terra che si spargeva nell’aria, attirando le garzette e i gabbiani che vedeva svolazzare dietro i trattori, avidi degli insetti costretti a lasciare i propri rifugi dalle macchine.
Quando il lungo brano terminò, avviò nuovamente la riproduzione e si incamminò lentamente verso la sua sinistra, raggiungendo l’appezzamento percorso dal trattore più potente, che trascinava un aratro trivomere. Nella luce del sole ormai abbastanza alto la terra risplendeva scura, qua e là punteggiata dall’oro della poca paglia che l’aratro non aveva coperto con le lunghe zolle che si sgretolavano dopo il suo passaggio.
L’odore del frumento raccolto era ormai sovrastato da quello del terreno umido portato alla luce dalle lame di metallo e polietilene che si insinuavano profondamente nel suolo, rivoltandolo.
Ad Aurora sarebbe bastato spostarsi di pochi metri per ritrovare l’odore della paglia macerata dal sole e dalle recenti piogge, ma preferì incamminarsi lungo il solco tracciato dall’aratro per valutare la qualità del lavoro.
La terra aveva il giusto grado di umidità e si sgranava in modo ottimale, spargendo nell’aria il suo profumo. Di lì a pochi mesi Aurora avrebbe ascoltato Pharoah Sanders osservando il primo raccolto della nuova annata.

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