domenica 12 novembre 2017

Ascanio

Ascanio Ascani di Torresecca fermò l’auto pochi metri oltre il cancello e attese che si chiudesse osservando i cani illuminati dagli otto potenti fari posizionati in coppie sugli angoli della casa di Aurora, appena sotto il tetto. Con sollievo e senso di colpa insieme vide che non si muovevano: immobili, a pochi metri dal limite della recinzione, fissavano con tristezza la famigliare giapponese, consapevoli che l’occupante li avrebbe lasciati soli. Ignari della misura dl tempo, Pezza, Daisy e Astro lo guardavano allontanarsi persuasi di essere privati per sempre anche della compagnia di Ascanio, la cui presenza aveva solo attenuato il dolore per l’assenza di Aurora.

Da qualche anno Ascanio aveva preso l’abitudine di trasferirsi in casa della sorella quando lei si assentava a lungo, così da occuparsi dei cani e da concedersi lui pure un’interruzione nella monotonia della sua vita in città.
Quando il cancello fu chiuso, Ascanio inserì la marcia e fece ripartire la macchina sulla rampa che conduceva all’argine lungo il quale proseguì verso il ristorante in cui aveva deciso di cenare, il preferito tra quelli conosciuti grazie ad Aurora.
Nel breve tragitto, ripensò alla cena consumata una settimana prima, la sera successiva al giorno in cui si era stabilito nella casa della sorella, dove avrebbe alloggiato finché lei sarebbe rimasta assente, impegnata per oltre un mese nel viaggio che si concedeva ogni anno, in autunno inoltrato, al termine dei lavori in campagna.
Quella sera aveva ordinato ravioli al cavolo nero e Castelmagno e una ricetta rara della tradizione locale, l’oca in onto, poi, guidato da un istinto improvviso, aveva chiesto che gli portassero anche un cucchiaio di trippa: spinto dalla fiducia nella cucina del locale si era deciso a mettere alla prova il proprio gusto a distanza di anni per scoprire se ancora quel piatto gli sarebbe apparso sgradevole come da bambino. Nel tempo, aveva scoperto di apprezzare molti cibi rifiutati da piccolo. La trippa era uno degli ultimi baluardi concessi alle sue convinzioni alimentari infantili e intendeva scoprire quanto fosse solido.
Mentre mangiava lentamente i ravioli, assaporando la combinazione di formaggio e verdura racchiusi dalla sfoglia sottilissima e delicata preparata da Maura, si perse nei ricordi dei piatti che aveva recuperato poco alla volta in età adulta, provando sempre un senso di rammarico per la rinuncia a sapori e consistenze che, chissà perché?, da bambino gli erano parsi intollerabili. E come altre volte, nel riflettere su quelle stupide rinunce, si trovò a domandarsi se sarebbe stato capace, nel caso avesse avuto un figlio, di aiutarlo a non commettere i suoi errori anche a tavola.
E come altre volte, nel pensare al figlio che non aveva avuto, si ritrovò a considerare l’inaridirsi della sua famiglia. La nuova generazione degli Ascani di Torresecca era rappresentata dalla sola Florence, avuta da Filiberto fuori dal matrimonio. Ginevra aveva dedicato la sua giovinezza e la sua maturità a sedurre uomini facoltosi grazie ai quali soddisfare un’ansia di vivere che, non di rado, evitava di condividere anche con colui che le stava, provvisoriamente, accanto. Gilberto, votatosi a un’improbabile castità inseguendo la chimera della sua vocazione sacerdotale, aveva vissuto l’unico amore alla macchia, guerrigliero come la compagna, in condizioni nelle quali un essere ragionevole avrebbe evitato di mettere al mondo un figlio. Aurora, decisa a lasciare la propria impronta in un ambiente nel quale le donne ancora non avevano lo spazio che meritavano, si era dedicata al lavoro, inseguendo nuove mete, salendo con determinazione la gerarchia delle diverse banche d’investimento in cui aveva messo a frutto l’innata predisposizione per la matematica e gli affari fino a quando aveva sentito il bisogno di occuparsi della semplicità apparente dell’agricoltura, lontano dal lusso e dalla frenesia di Wall Street e Canary Wharf.
Lui, Ascanio, si era reso presto conto che le fondamenta del suo matrimonio erano troppo fragili per costruire una famiglia. E non smetteva di provare sollievo per aver saputo opporre fermezza alle aspirazioni materne, per la verità incerte, della moglie.
Le sue riflessioni furono interrotte dall’apparire di Luca che portava un candido piatto fondo. Lo posò davanti a lui e versò altro vino rosso nel calice. Ascanio lo ringraziò fissando le sottili strisce di carne bianca e rugosa immerse in un sugo di un rosso delicato e lucente. Per un attimo riapparve in lui la diffidenza sempre provata di fronte alle trippa, ma la scacciò senza fatica, abbassando la testa per meglio raccogliere gli aromi che emanavano dal piatto: in quello tenue del pomodoro si fondeva un delizioso sentore di carne, garbato, grasso, persistente, dolce.
La forchetta raccolse la prima fettina, la sollevò lentamente verso la bocca. Ascanio esitò qualche istante prima di schiudere le labbra e annusò ancora, pregustando il piacere che avrebbe provato quando quel profumo si sarebbe trasformato in sapore sulla lingua e sul palato.
Masticò lentamente, cercando di distinguere ogni dettaglio percepito dalle papille gustative, stupito dalla dolcezza e morbidezza della carne che pian piano i denti smembravano senza fatica, spargendo in bocca aromi nuovi e altri conosciuti. Ne prese subito un altra forchettata e ancora la inghiottì solo dopo averla masticata con cura, quasi cautamente, timoroso di perdere qualcosa.
“A cosa ho rinunciato per tanti anni… - disse sollevando lo sguardo verso Luca che lo osservava da dietro il banco che ospitava, oltre a una monumentale Berkel rossa, la ricca collezione di formaggi e di salumi - Squisita!”
Il cameriere sorrise, prendeva visibilmente parte all’emozione di Ascanio. Un anziano uomo felice come un bambino. 

P.S. La riscoperta della trippa è una recente esperienza personale. Così preziosa da avermi indotto a raccontarla attraverso Ascanio. Il ristorante di cui parlo esiste e si chiama Balobino. Si trova a nella bassa Padovana, a Sant'Urbano, accanto alla vecchia chiesa. Merita una visita. E poi vorrete tornare.  

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