giovedì 23 agosto 2018

Ascanio


Ascanio Ascani di Torresecca si asciugava osservando il proprio corpo nudo riflesso nello specchio. Anche lui faticava a scorgere la cicatrice dell’ernioplastica inguinale destra cui si era sottoposto diversi mesi prima. In superficie il luminare aveva fatto un ottimo lavoro. Sotto la pelle, però, le cose non andavano affatto bene.
Non era, tuttavia, il peggiore dei suoi guai.

Distolse lo sguardo dall’addome e lo spostò sul volto. Sorrise vagamente a se stesso, immaginando quell’intruso di sette o otto millimetri che si nascondeva dietro l’occhio sinistro. Ne conosceva l’esistenza da quasi dodici anni, da quando, casualmente, una risonanza magnetica, fatta per capire le origini della sua sordità, aveva rivelato la presenza di una neoplasia che il neuro-radiologo gli aveva comunicato, senza giri di parole, raggiungendolo nello spogliatoio, evidentemente ansioso di smontare in fretta per godersi il fine settimana di novembre.
Dopo avergli domandato se avesse avuto fenomeni epilettici, alla risposta negativa di Ascanio, quasi si trattasse di un nonnulla, quello gli aveva annunciato che aveva un tumore cerebrale.
Ascanio aveva replicato con un battuta stupida, adeguandosi al tenore impresso alla conversazione dallo specialista. Aveva detto qualcosa tipo “Non è certo la causa della mia stupidità”. L’altro aveva sorriso e se n’era andato salutando con un’espressione che, nel tempo, Ascanio avrebbe imparato a riconoscere nel volto di parte dei medici con i quali avrebbe dovuto parlare dell’inquilino abusivo collocato saldamente non troppo lontano dal centro della sua testa.
Dove era rimasto apparentemente tranquillo da quel venerdì di novembre di oltre undici anni prima, salvo decidere di prendere vigore negli ultimi tempi.
Ascanio gli aveva dedicato attenzione e ansia nell’immediatezza della scoperta, sottoponendosi a una TAC e a una seconda, più accurata e potente, risonanza magnetica. Poi aveva consultato tre neurochirurghi che, non sorprendentemente, avevano espresso opinioni assai diverse. Lui aveva deciso di dare ascolto a quella preferibile, confermata a distanza di sei mesi da una terza risonanza: lasciare tutto come stava. Controllare che la lesione, loro la chiamavano così, rimanesse silente o indolente, anche questi erano termini appresi dai medici. Una risonanza ogni sei mesi non gli era sembrata una concessione eccessiva. Anche il pensiero di quella presenza non gli aveva causato troppi fastidi. Ascanio le aveva dato spazio soltanto nell’imminenza della prenotazione dell’esame e dell’esame stesso. Certo, da qualche parte, nella sua mente, la consapevolezza del vermicello era presente, tuttavia non tanto da condizionare la sua vita.
Era rimasto abbastanza indifferente anche quando, a circa tre anni di distanza dalla scoperta, era parso che non fosse più così indolente o silente.
L’esito incerto di uno degli esami semestrali lo aveva, tuttavia, indotto a cambiare atteggiamento, soprattutto per rispetto verso la cugina sulle cui spalle aveva, arbitrariamente, scaricato il peso della questione, ignorando, consapevole, come le sue competenze di medico e anche il rapporto affettivo la rendessero inadatta al ruolo di referente clinico.
Avevano deciso insieme che era giunto il momento per Ascanio di consultare uno specialista di neuro-oncologia. La scelta era caduta su colei che era considerata una dei maggiori esperti italiani nel settore, primario del reparto di oncologia in un’ospedale di una città non troppo distante dalla sua.
Ascanio ricordava perfettamente il suo arrivo nel vasto piazzale sterrato che fungeva da parcheggio per la struttura nascosta dagli alberi sulle pendici della collina. Si era rapidamente orientato nel primo pomeriggio di un torrido giorno di giugno e aveva posteggiato la Subaru in una posizione che, sebbene ancora al sole, avrebbe garantito l’arrivo dell’ombra se, come temeva, la cosa sarebbe durata a lungo. 
E ricordava anche meglio l’incontro con la luminare, dal quale, se non avesse avuto un po’ di forza interiore, sarebbe uscito deciso a buttarsi nel primo corso d’acqua incontrato sulla via del ritorno.
Il quadro, dipinto con parole spicce e ruvide dalla dottoressa, era di quelli che si potevano osservare solo se in possesso di autocontrollo e di razionalità. Ascanio era riuscito e, dopo i due esami prescritti dalla luminare, si era trovato, con indubbio sollievo, a osservare una ben diversa immagine. Lei, però, anche nel secondo incontro, aveva insistito nell’usare i toni più cupi, incurante del fatto che la contraddicevano proprio gli accertamenti che aveva prescritto: Ascanio avrebbe dovuto farsi aprire la testa, sempre che trovasse un chirurgo disposto a farlo, e sperare che fosse possibile rimuovere interamente la lesione. Ascanio non le aveva dato retta, non completamente: le aveva detto che intendeva solo sottoporsi ancora a risonanza e Pet per verificare se la malattia stava effettivamente progredendo. Lei aveva suggerito di farlo entro tre mesi; lui si era adeguato ai tempi indicati, ignorando il resto. E i colori dipinti dalla specialista si erano rapidamente dissolti, lasciando la tela quasi completamente bianca, esattamente com’era stata sino a pochi mesi prima dei loro incontri.
Erano trascorsi gli anni, scanditi da risonanze via via meno frequenti, sino a quella di un giovedì all’inizio di un’altra estate, più piovosa delle precedenti. L’esame era durato un’ora, quindici o venti minuti meno dei precedenti. E quando Ascanio era uscito dalla stanza che ospitava il nuovo macchinario della neuro-radiologia di V., il Dottor A., solitamente pronto a dargli notizie rassicuranti, si era tenuto lontano, insinuando in lui il sospetto che, pochi giorni più tardi, aveva trovato conferma nelle parole del referto.
Millimetrico aumento di volume della nota lesione… Apprezzabile solamente nota di lieve incremento della neoangiogenesi…
Le cose stavano cambiando. E Ascanio non poteva evitare di pensare al fatto che, nelle settimane o nei mesi in cui, probabilmente, il suo inquilino si era risvegliato e messo in movimento, Pezza, la sua prediletta tra i cani della sorella, aveva mostrato i segni di una malattia simile.
“Fanculo! La mia vita continua e finisce come decido io”.
Si vestì e raggiunse Aurora in cucina, inginocchiandosi per coccolare Pezza che ormai non riusciva più a sollevarsi sulle zampe posteriori per manifestargli il suo straordinario affetto come avrebbe desiderato.
Nella casa risuonavano le note di Trois morceaux après des hymnes byzantins II eseguito da Anja Lechner e Vassilis Tsabropoulos, un brano appena un po’ malinconico che, Aurora lo conosceva bene, lo aiutava a dimenticarsi della malattia e a concentrarsi nella preparazione della cena.

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