venerdì 8 novembre 2019

Ascanio


Ascanio Ascani di Torresecca camminava piano, sotto il portico di una strada stretta, a ridosso del centro di B. Benché fosse arrivato l’autunno, muovendosi nelle ore centrali della giornata, cercava nell’ombra riparo dal sole ancora caldo.



Lo sguardo fissava quasi costantemente il marciapiede pochi metri davanti a lui, assai di rado lo sollevava per osservare lontano. Si trattava di un cambiamento di abitudini di cui si era reso conto soltanto da alcune settimane. 
Prima del manifestarsi della malattia, quando si era mosso in fretta per raggiungere una meta, i suoi occhi avevano guardato diritto davanti a lui, lontano, con la sicurezza che, comunque, avrebbe intuito e memorizzato eventuali ostacoli. Ora passeggiava in modo assai diverso, per fare un po’ di esercizio fisico, e, in conseguenza della debolezza e dell’intontimento che avvolgeva la testa quasi costantemente, avvertiva il bisogno di controllare sempre i punti su cui stava per posare i piedi, preoccupato che una buca o una pietra sconnessa lo facesse inciampare o persino cadere.
Pur attento a dove metteva i piedi e nonostante il senso di ottundimento, riusciva a proseguire le proprie riflessioni. La morte era spesso presente, come in quel momento, nei suoi pensieri, ma si accompagnava alla vita, più di frequente ai ricordi della vita, degli anni più o meno immersi nel passato.
Quel giorno rifletteva sui luoghi della sua esistenza e si andava convincendo che fossero luoghi della sua esistenza anche quelli nei quali non aveva trascorso anni o mesi o neppure settimane. Certo, in senso stretto poteva dire di aver vissuto solo a B., a Milano, a New York, a Toronto e, naturalmente a V., pure ricordava con la medesima emozione e con il medesimo senso di pienezza le ore, molte meno, passate a Kyoto piuttosto che a Hanging Rock, a San Francisco piuttosto che a Milford Sound e altrove. Ricordi che si accompagnavano alla consapevolezza di essere stato un privilegiato, parte della minoranza dell’umanità alla quale la sorte concede la possibilità di muoversi nel mondo. Ascanio provava una gratitudine indispensabile verso il destino che, mettendolo al mondo in una famiglia benestante, gli aveva evitato la condanna a non vedere altro rispetto allo spazio in cui era nato e quella, peggiore, a percorrere in esso tutto il proprio cammino.
Con trascurabili eccezioni, i suoi ricordi più intensi e più cari erano legati a luoghi poco o nulla contaminati dall’uomo e anche quelli che erano irrimediabilmente vincolati ad ambienti urbani si concentravano su alcuni nei quali lo sguardo aveva potuto muoversi un po’ liberamente, senza vincoli di troppi edifici.
Ascanio riconosceva in questo i segni della sua natura solitaria, appagata dalla distanza dai propri simili e anche dai segni della loro esistenza. In quei luoghi appartati si era sentito in pace con se stesso, aveva addirittura respirato diversamente, percepito lo scorrere della sua vita in maniera del tutto diversa e più giusta, più piena e più serena, forse anche più dolce.
Sapeva perché dalla sua memoria faceva riemergere quei ricordi. Dentro di lui, da quando avvertiva più pesantemente i disturbi provocati dalla malattia e aveva maturato completamente la decisione su come affrontare la situazione, si abbandonava volentieri a quelle che qualcuno avrebbe considerato fantasticherie morbose. Opinione cui Ascanio poteva anche riconoscere un qualche valore, ma solo limitatamente all’orientamento del singolo, non in generale. Le decisioni sulla vita appartengono solo a chi la vive. Soprattutto quelle sul modo e sul momento in cui essa deve concludersi. E lui, a riguardo, aveva già deciso il modo e sentiva che il momento si avvicinava.
Si rese conto di sorridere. La morte, ormai, era più che mai parte della sua vita, non il suo contrario, inesorabilmente. E gli procurava sollievo e serenità immaginare di concludere la propria esistenza in uno dei luoghi di cui serbava un ricordo particolarmente caro.
Sapeva che non sarebbe riuscito a farlo in alcuni dei più amati. Molti di quei luoghi erano troppo lontani, irraggiungibili nelle sue condizioni. Pure era bello pensare di chiudere gli occhi davanti alla bellezza rasserenante di un giardino zen piuttosto che a quella imponente di rocce maestose che s’immergono nelle acque blu di un fiordo in un territorio quasi inabitato.
Immaginava facilmente se stesso seduto, con l’ultimo sigaro tra le dita, predisporsi a compiere i gesti del commiato, i gesti con i quali avrebbe posto fine ai suoi giorni, liberandosi dalla sofferenza e dal senso di inadeguatezza di sé che la malattia aveva reso ormai inaccettabile.
Avrebbe assaporato il fumo lentamente, con piacere, ritrovando la consapevolezza di andarsene prima di quanto, statisticamente, sarebbe stato prevedibile, ma senza delusione o, peggio, rancore verso la sorte. Vedeva il bicchiere mezzo pieno, non mezzo vuoto. Si considerava comunque fortunato: oltre ai luoghi cari della sua vita, nella memoria erano saldamente presenti i volti e i nomi di parenti, amici e compagni di scuola che se ne erano andati ben più giovani di lui. Tutti loro avrebbero senz’altro preferito avere avuto, anziché il proprio, il destino di Ascanio. E Ascanio non si sarebbe perdonato se avesse trascurato di tenere adeguato conto di ciò.
Ormai si avvicinava alla strada in cui abitava e quella che percorreva era assai più affollata delle viuzze nelle quali aveva camminato incontrando poche persone, per fortuna nessuna conosciuta.
Faticò a percorrere le ultime centinaia di metri, perché solo in parte protetti da portici sotto i quali trovare riparo dal sole autunnale, pallido, ma caldo.
Quando fu in casa, dopo aver bevuto alcuni sorsi d’acqua, si andò a sedere sul divano, ridestò il MacBook e attivò il collegamento a JAZZRADIO.com. Tra gli oltre trenta disponibili, scelse il canale Jazz Ballads, quello che negli ultimi tempi aveva iniziato a prediligere. Trasmettevano Autumn Nocturne eseguito da un quartetto guidato da Bryan Lynch e Bill Charlap. Ascanio pensò che fosse inappropriato, data l’ora, ma lo ascoltò con piacere: era piuttosto vivace e non vi era malinconia, salvo un accenno negli accordi conclusivi, nei quali, tuttavia, si inserivano note improvvisamente allegre e vitali, segno che ancora non era giunto il momento di chiudere gli occhi.

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