lunedì 6 aprile 2020

Aurora

Aurora Ascani di Torresecca guardò Daisy saltare ancora una volta il fosso che, a sinistra, separava la capezzagna dall’appezzamento in cui il grano risplendeva, umido di rugiada, nel sole che ormai aveva dissolto la nebbia. Astro, invece, camminava stanco verso di lei tra le file di barbabietole spuntate da pochi giorni, la lingua protesa fuori dalla bocca, sfiatato dall’inutile tentativo di raggiungere una lepre.




Neppure osservare i cani che godevano la libertà e lo spazio offerti dalla campagna dava sollievo dalla malinconia. Anzi, la rendeva più pesante, perché avvertiva maggiormente l’assenza di Ascanio, che negli ultimi anni aveva spesso diviso con lei le passeggiate.
A tenere lontano il fratello non era la debolezza provocata dalla malattia, ma il blocco della mobilità introdotto per fronteggiare l’epidemia che stava colpendo in modo impietoso l’Italia.
Aurora aveva parlato con lui prima di uscire, avvertendo quanto Ascanio patisse non solo il divieto di compiere il breve tragitto da B., ma anche quello di uscire di casa tranne che per esigenze essenziali, così che era privato anche delle sue solitarie e lente camminate in città, unico sollievo, fisico e psicologico, nelle condizioni provocate dall’invadenza del tumore.
Anche la vita di Aurora era una po’ cambiata per le limitazioni, nulla, però, di inaccettabile. Poteva rinunciare a comprare qualche formaggio o qualche affettato pregiati nel negozio di E. Le sue giornate si susseguivano quasi identiche a prima dell’epidemia. Organizzava le attività in campagna, si concedeva le due passeggiate quotidiane con Daisy e Astro, leggeva i giornali in rete, più volentieri i suoi libri, ascoltava la musica che amava, gestiva il suo patrimonio, la sera guardava film o serie tv o ancora leggeva, sorseggiando un buon vino. Non le mancava nulla.
Sfiorò con la mano la testa di Astro e richiamò Daisy: era ora di rientrare in casa. I cani le si affiancarono e camminarono lentamente accanto a lei, stancati dalle corse e dal caldo, innaturale per i primi giorni di primavera.
Quando raggiunsero il cancello, Aurora sentì, come ogni giorno, il bisogno di osservare la lapide che ricopriva il punto in cui aveva seppellito la ceneri di Pezza. Quel gesto, il movimento del capo per posare lo sguardo sul marmo chiaro che riportava il nome e le date agli estremi della vita del cane, aveva assunto un nuovo significato negli ultimi giorni, aggiungendo senso di colpa al dolore ancora profondo per la perdita: inevitabile pensare che, per chi l’epidemia strappava alla vita, non c’era una cerimonia funebre neppure paragonabile a quella riservata a Pezza, per la quale persino Gilberto aveva fatto ritorno in Italia dopo tanti anni. 
Aurora scrollò piano la testa mentre chiudeva la serratura del cancello pedonale. Osservò i cani che si avviavano veloci verso il porticato, dove avrebbero trovato acqua per dissetarsi. E ripetè a sé stessa, ancora con senso di colpa, di essere privilegiata. Seguì Astro e Daisy immaginando le strade e le piazze vuote di B., i volti dei pochi passanti nascosti dalle mascherine, gli sguardi preoccupati e smarriti, le saracinesche abbassate, immagini impresse dentro di lei grazie alle descrizioni asciutte, quasi asettiche di Ascanio, il quale guardava alla vita ormai con distacco che, tuttavia, non impediva la capacità di narrare vividamente e con dolore ciò di cui era testimone.
Niente, nella loro vita, le appariva paragonabile a ciò che stava accadendo. Grazie alla ricchezza della famiglia, Aurora e i fratelli avevano goduto anche più pienamente dei loro coetanei del benessere diffusosi dagli anni 60. Solo nell’ultima parte del decennio successivo, quando il terrorismo aveva colpito duramente il paese, le loro esistenze erano state un po’ alterate: maggiore prudenza nella scelta delle persone con cui entrare in confidenza, frequenti contatti con le forze di polizia, presenti nelle strade assai più che in passato e particolarmente rigide nel controllare i giovani, rinuncia a qualche concerto per il timore di attentati. Allora le erano parse condizioni sgradevoli, motivo di discussione con i genitori, limitazioni alla sua esuberanza adolescenziale, avida di feste, di compagnia, di ragazzi, di cinema, di ogni possibile svago.
Ora quasi si vergognava dei sentimenti di quegli anni, della sciocca rabbia provata per quelle che erano state insignificanti rinunce. I tanti concerti venuti dopo non riusciva neppure a ricordarli. Non dimenticava, invece, la noia delle sciocche chiacchiere con le amiche. Così come le scopate insoddisfacenti e i brutti film e le ore perse illudendosi di divertirsi. Quando si ha tutto…
Le generazioni come la sua non avevano compreso la generosità del destino. Aurora, però, si augurava che, nel momento in cui il virus devastava l’esistenza di tutti, di alcuni in modo tale che difficilmente sarebbe tornata la stessa prima di anni, quelli della sua età avrebbero saputo ricordare i racconti dei nonni e dei genitori, donne e uomini che avevano vissuto due guerre spaventose, la miseria e le atrocità che avevano portato con sé, il dolore per le morti e le distruzioni, il dubbio di poter mai condurre nuovamente una vita decente, finalmente dignitosa.
L’umanità, forse, aveva bisogno di ritrovarsi di fronte alla sua fragilità, alla sua inesorabile impotenza davanti a forze che si era illusa di controllare, addirittura di poter vincere sempre e comunque.
Per Aurora, in qualche modo, era più facile convivere con ciò che accadeva. Oltre che sulla forza della memoria, poteva contare sulla solidità del patrimonio, sulla fertilità della terra che avrebbe continuato a coltivare, sulla fermezza del carattere arrotato dagli anni trascorsi a cercare ogni giorno il successo e i guadagni nei mercati finanziari. Un pensiero che, però, non le procurava nessun sollievo, aggiungeva, anzi, tormento alle sue riflessioni, al pensiero di ciò che accadeva alla maggior parte degli altri. Un pensiero reso tanto più angosciante dalla convinzione che ben pochi, tra quanti avevano tra le mani i destini dei propri concittadini, fossero all’altezza del compito e, peggio ancora, si rendessero conto di quali conseguenze comportavano per milioni di persone le decisioni che prendevano. 
Entrò in casa seguita da Daisy e Astro e sedette al computer. Aprì la cartella della musica e cercò un brano eseguito da Bill Evans, un famoso standard composto da Herb Ellis, John Frigo e Lou Carter: “Detour Ahead”. Si poteva solo sperare che presto la direzione cambiasse. Presto.

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