sabato 26 dicembre 2020

Aurora

Spero, come tutti, di vedere la fine di questo incubo del virus, ma ho paura anche di un dopo che non riesco a immaginare ma che intuisco radicalmente altro rispetto al mondo che ho conosciuto e rispetto al quale, anche senza il genio di Karl Kraus, non mi sento di dire nulla.

Claudio Magris


Aurora Ascani di Torresecca aprì la porta per far rientrare in casa Daisy e Astro. I cani la precedettero in cucina, muovendo le code allegramente, pronti a consumare i biscotti che erano il loro primo cibo della giornata.

Dopo aver messo tre pezzi per ognuno nelle ciotole, Aurora allestì la propria colazione e la consumò nel silenzio e nella fioca luce del mattino festivo, di un Natale che, diversamente dai precedenti, avrebbe trascorso in solitudine, senza la compagnia di Ascanio, trattenuto in città più dalla debolezza prodotta dalla malattia che dalle restrizioni imposte ai movimenti a causa della pandemia.

L’assenza del fratello la rattristava e provocava riflessioni ancor più malinconiche riguardo al futuro, nel quale sapeva che Ascanio non ci sarebbe più stato: le aveva detto apertamente che le sue risorse si erano ormai esaurite e che intendeva farla finita una volta iniziato il nuovo anno. La prospettiva di perderlo le appariva intollerabile, ma sapeva di doversi rassegnare, perché ormai lui soffriva troppo da troppo tempo e il cammino che aveva deciso di percorrere non prevedeva altra meta che la morte, comunque raggiunta.

Guardò Daisy e Astro, ora distesi una accanto all’altro sotto al tavolo al quale lei sedeva. Averli vicini attenuava, ma non allontanava la tristezza e il senso di sconforto che si accentuavano ormai da alcune settimane, da quando la seconda ondata del Covid-19 uccideva centinaia di persone e ne contagiava migliaia ogni giorno.

A tratti alla tristezza e allo sconforto si aggiungeva anche una rabbia profonda, impossibile da contenere perché a causarla era il comportamento della gente, che Aurora considerava imperdonabile.

Due giorni prima si era recata per un controllo dal dentista, che aveva lo studio nel pieno centro di B. e, per raggiungerlo dal garage nel quale aveva lasciato l’auto, Aurora era stata costretta a percorrere alcune delle principali strade pedonali in cui innumerevoli persone vivevano quei giorni prossimi al Natale senza preoccuparsi affatto di ciò che accadeva.

Ai tavolini tutti occupati dei bar, nei plateatici più estesi rispetto al passato, aveva visto seduti clienti che, nonostante l’ora, avevano davanti a loro bicchieri pieni di spriz o vino: in prevalenza ragazzi e giovani, ma anche persone più mature. In larga maggioranza le erano parsi allegri: le voci alte, non rare grida e risate anche sguaiate. Atteggiamenti che Aurora, pur sforzandosi, non riusciva a giudicare ragionevoli e, men che meno, adeguati a ciò che succedeva anche a poca distanza da lì, non solo nelle camere del vicino ospedale, cresciuto attraverso i secoli nel cuore della città.

C’era gente che soffriva e che moriva: gente che non avrebbe sofferto e che non sarebbe morta in assenza del virus, la cui diffusione quei comportamenti favorivano al punto da aver reso la regione di B. quella con i dati di contagio e mortalità peggiori in Italia. Indifferenza, superficialità, egoismo, stupidità, Aurora non trovava altre parole per spiegare, non certo giustificare.

Non mancava nei mezzi di comunicazione chi tendeva a motivare la reazione della maggioranza delle persone sottolineando che si trattava di generazioni che non avevano mai conosciuto esperienze devastanti paragonabili alla pandemia. Aurora, pur riconoscendo che era così, non poteva considerare una giustificazione il fatto che, nella vita dei nati dopo la Seconda Guerra, erano mancate sofferenze simili a quelle conosciute dalle generazioni precedenti, come le guerre mondiali e la povertà diffusa, la Grande Depressione e le dittature. 

Era portata a pensare che l’uomo non fosse mai preparato a vivere condizioni tragiche, di sofferenza intensa e continua, anche disperata, e di assenza della libertà. Non certo l’uomo moderno, formato dai cambiamenti profondi conosciuti grazie alle rivoluzioni del XVIII e XIX secolo, ai progressi della medicina, ai miglioramenti nelle condizioni di vita, alla trasformazione nei sistemi produttivi e negli ambienti di lavoro, per quanto tuttora sgradevoli in molti paesi e molti settori. No, per Aurora non c’era giustificazione possibile, anzi, proprio i progressi compiuti e la superiore qualità della vita avrebbero motivato reazioni assai diverse, dettate dalla consapevolezza che solo alcuni sacrifici, non facili da sopportare, ma tollerabili, avrebbero consentito il più rapido ritorno possibile a un’esistenza simile a quella precedente l’apparire del virus. Una vita che, comunque, non sarebbe mai tornata la stessa. E anche questo, come giustamente sottolineava Claudio Magris, avrebbe richiesto capacità di capire, di andare al di là, di superare le proprie aspettative più meschine, purtroppo in quel momento così prevalenti.

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