domenica 4 settembre 2016

Ascanio

Ascanio Ascani di Torresecca volse ancora una volta lo sguardo sullo studio privato del lontano cugino, il notaio VittorDiego Ascani di Pietrastorta: una sala che compensava la modesta altezza del soffitto con la generosa ampiezza degli spazi e la luce che entrava abbondante dalle otto finestre a bifora, quattro affacciate sul parco del palazzo e quattro affacciate sulla strada.


Per Ascanio era più che sgradevole osservare le librerie che coprivano parte delle pareti, lasciando spazio ad alcuni grandi ritratti di uomini, tutti di profilo con il medesimo panorama come sfondo: le colline che sorgevano a sud di B. In ognuno dei quadri aveva particolare rilievo quella sulla cui sommità si ergeva la snella torre dalla quale, secondo la leggenda, era derivato il nome della famiglia.
Non c’era nulla nello studio che non ricordasse ad Ascanio il declino della sua famiglia e il quasi contemporaneo prosperare dei parenti che, pian piano e indirettamente, si erano appropriati dei beni venduti dagli Ascani di Torresecca negli ultimi duecento anni, incluso il palazzo che portava il loro nome.
A comperare il maestoso edificio, la cui costruzione risaliva, nelle parti più antiche, all’inizio del XII° secolo, era stato il nonno del nonno di VittorDiego, Vittorio Ascani di Pietrastorta, il quale aveva moltiplicato la ricchezza ereditata non soltanto grazie al fiuto per gli affari, ma anche alla disinvoltura con cui aveva perseguito il guadagno e alla non meno spietata determinazione ai tavoli da gioco.
“Mi stai ascoltando, Ascanio? - domandò il notaio con voce nasale e tono pedante - Ti pregherei di non distrarti.”
Ascanio si limitò a muovere la testa in segno di assenso e a sorridere. Come avrebbe voluto tornare ai giorni dell’adolescenza, quando, nelle rare occasioni in cui avevano giocato insieme, lui e Filiberto si erano spontaneamente coalizzati per infierire su quel parente che l’aspetto e i modi rendevano più antipatico di quanto già non fosse in conseguenza delle vicende familiari. Un desiderio fattosi ormai irrealizzabile, perché Filiberto sembrava aver deciso di stare, da morto, dalla parte di VittorDiego.
Tra tutti i notai cui avrebbe potuto affidare le sue ultime volontà, Filiberto aveva scelto proprio quello che, non poteva ignorarlo, avrebbe reso più sgradevole ad Ascanio il compito di esecutore di quelle volontà.
Una scelta dettata da sottile perfidia, un gesto di irrisione postuma per tutti i fratelli, ma in particolare per lui, tenuto ad applicare le innumerevoli puntigliose prescrizioni che VittorDiego elencava con evidente soddisfazione.
“VittorDiego, figlio di VittorCarlo, figlio di VittorBruno, figlio di VittorAlvise, figlio di Vittorio - ripeté dentro di sé come una cantilena Ascanio - Affarista e giocatore abile e fortunato, ma irrimediabilmente volgare Vittorio Ascani di Pietrastorta… Solo un uomo irrimediabilmente volgare può stabilire che tutti i discendenti debbano portare un nome in cui compaia per primo il suo e il secondo inizi con la medesima lettera in ogni generazione… Roba da allevatori di cani e di cavalli.”
Sorrise ancora al lontano cugino notaio, il quale stava elencando nuovamente le numerose proprietà di Filiberto, molto superiori a quanto Ascanio avesse previsto. Valeva senz’altro la pena di accettare l’incarico di esecutore, così facendo si sarebbe garantito la fetta più generosa di eredità, un privilegio che avrebbe reso più tollerabile il compito. Un privilegio che ancora stentava a spiegarsi: lui e Filiberto si erano irrimediabilmente allontanati dopo gli anni della prima adolescenza. La complicità che li aveva uniti nel tormentare VittorDiego era svanita, sostituita da rapporti sempre più rari e freddi.
Ascanio era soprattutto felice di ereditare la casa di Filiberto a Saint Tropez. L’aveva vista solo una volta e si era perdutamente innamorato del giardino, della piccola cala baciata dal sole e della costruzione immersa nel verde, invisibile dal mare e dalla strada, un autentico gioiello, opera di un geniale architetto italiano. Già pregustava il momento in cui ne avrebbe preso possesso, le ore che avrebbe trascorso nel vasto salotto ad anfiteatro, di cui ricordava ogni dettaglio, compreso quello rimasto inspiegabile: una grande nicchia ricavata nella parete diritta.
Ascanio fu riportato alla realtà dalle parole che VittorDiego stava dicendo. Tutto si spiega, pensò scrollando con amarezza la testa.
“Fanculo - si disse osservando l’espressione vagamente compiaciuta del cugino - Solo quello stronzo di Filiberto poteva decidere di essere imbalsamato e che la sua salma venisse conservata in una teca di vetro nella nicchia della casa di Saint Tropez…”

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