domenica 4 settembre 2016

Aurora

Aurora Ascani di Torresecca aprì una dopo l’altra le tre diverse scatolette di cibo per cani. Aiutandosi con un cucchiaio ne fece scendere il contenuto nelle ciotole di metallo di misure differenti; dopo aver aggiunto un po’ d’acqua in tutte, sbriciolò una pastiglia per il fegato nel cibo destinato a Pezza e una per le articolazioni in quello di Astro. Aggiunse infine le crocchette, già pesate in precedenza, quindi dispose i tre recipienti accanto a quelli dell’acqua sull’ampia stuoia di plastica che copriva il pavimento nell’angolo della cucina riservato ai cani.
La prima a immergere il muso nel suo pasto fu Daisy, la più giovane e più vivace, quella che non rinunciava mai a rincorrere una lepre per il puro divertimento di misurarsi in velocità con essa. Meticcia di pastore australiano, a cinque anni rivelava tutta la vitalità ereditata dalla razza instancabile di cui possedeva il manto blue merle e la conformazione, ma non la dimensione, risultando più piccola ed esile rispetto agli standard stabiliti.
Anche Pezza e Astro iniziarono a mangiare sotto lo sguardo di Aurora, che sorrise compiaciuta nel vederli consumare il proprio pasto uno accanto all’altro con calma, senza darsi fastidio e senza mai tentare di rubarsi un boccone. Non era stato difficile abituarli a convivere. Pezza, la prima arrivata, aveva trasmesso ai due che si erano aggiunti sia la propria compostezza innata sia il rispetto delle regole, frutto dell’educazione impartitale dolcemente da Aurora.
Dopo essersi attardata ancora qualche istante a osservarli, Aurora uscì dalla cucina e raggiunse l’impianto stereofonico del soggiorno, nel quale inserì il CD “Ragas And Sagas” di Jan Garbarek e Nusrat Fateh Ali Khan. Dopo aver avviato la riproduzione e alzato leggermente il volume, tornò in cucina e si avvicinò alla grande porta finestra dalla quale poteva osservare la sua proprietà, sulla quale si erano già allungate le ombre della sera.
Salvo la soia, di cui distingueva in lontananza le piante morte che andavano perdendo le ultime foglie, tutte le colture erano state raccolte e, a seconda della provenienza del vento, le arrivavano alle narici i diversi odori dei campi su cui restavano ormai solo le tracce di granoturco e barbabietole e, più lontane e ormai arse dal sole di luglio e agosto, le stoppie di frumento.
Aurora avrebbe saputo capire anche a occhi chiusi se si trovava accanto a un appezzamento in cui era stato coltivato mais o grano o un qualsiasi altro seminativo entrato nella tradizione dell’agricoltura di quell’area fertile dell’Italia settentrionale, ai margini meridionali della provincia di B.
Ben presto, a quegli odori familiari, si sarebbe sostituto quello, altrettanto noto, ma unico e pervasivo, della terra arata. Già il giorno seguente, con il trattore azzurro e il quadrivomere verde, Gabriele avrebbe iniziato a percorrere gli appezzamenti, riportando alla luce il colore bruno rossastro della terra, ora celato dai residui lasciati dai raccolti.
Abbassò lentamente le palpebre e interruppe la contemplazione della campagna, concentrandosi sulle note del cd.
Pur consapevole che non era vero, le piaceva immaginare Nusrat Fateh Ali Khan che, bambino, percorreva le valli tra le montagne del Pakistan e cantava le canzoni apprese dal padre e dagli zii. In realtà era nato a Faisalabad, una delle città principali del suo paese, non così vicina alle catene montuose, eppure Aurora si divertiva a fantasticare sul fanciullo un po’ grassoccio che sarebbe diventato un cantante famoso nel mondo, capace di far amare quasi ovunque la sua voce potente e i ritmi intensi della musica pakistana. Immaginava la voce ancora infantile diffondersi tra le rocce, riprodursi in eco sempre diverse, mescolarsi al gorgoglio di una cascata, spegnersi tra gli alberi di una foresta.
Pensò alla vita di Nusrat, esauritasi ancor prima che raggiungesse in cinquant’anni, vinta dalla malattia al fegato e ai reni, durante il viaggio verso un trapianto cui non riuscì mai a sottoporsi.
Aurora provava sempre una rabbia sorda di fronte a destini come quelli del cantante pakistano. Le pareva un’ingiustizia che l’umanità fosse privata dalla bellezza prodotta da una voce, da uno strumento musicale, da un pennello, da parole accostate mirabilmente. Quando ciò accadeva troppo presto, come nel caso di Nusrat e di tanti altri, le sembrava un torto intollerabile. Anche quando la morte arrivava a causa delle intemperanze delle vittime, com’era accaduto a tanti interpreti del jazz e non solo.
Chiuse gli occhi e iniziò a muoversi appena, seguendo le note morbide di Raga I, il primo brano dell’album, prossimo alla conclusione. Si ritrovò a pensare con rammarico al fatto di non aver mai visitato il paese natale di Nusrat Fateh Ali Khan. Ormai le sarebbe stato praticamente impossibile farlo, poiché da quindici anni non saliva più a bordo di un aeroplano.
Erano trascorsi esattamente dieci giorni dal quindicesimo anniversario del giorno che Aurora considerava non solo causa di quella e di altre svolte nella propria vita, ma ancor più dei solchi profondi che si erano aperti nel mondo. E le affinità e le condivisioni che Garbarek e Nusrat avevano saputo favorire con tanta maestria e procurando tanta felicità, alcuni avevano gravemente incrinato, cercando di separare con la violenza e con l’ottusità ciò che la curiosità e la fertilità della mente umana avevano unito.


P.S. Il racconto contiene un errore di cui mi sono reso conto poco fa. Mi sono fidato della memoria e ho sbagliato: Ragas and Sagas è frutto della collaborazione tra Jan Garbarek e Ustad Fateh Ali Khan, altra grande voce del Pakistan. Mi scuso con chi ha letto o leggerà. Alterare il testo, a questo punto, sarebbe impossibile.

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