domenica 4 settembre 2016

Gilberto

Padre Gilberto Ascani di Torresecca, S.I., si avvicinò alla bassa finestra camminando lentamente sulle gambe secche, guidato dal desiderio di osservare meglio il ristretto lembo del mondo sul quale, da anni, affacciava il suo sguardo.
Guardò per alcuni minuti le luci di Granada in lontananza, riflesse dall’acqua del lago e rese più tremolanti dalle irregolarità nella superficie del vetro. La città distava pochi chilometri, ma per lui la vita scorreva solo nello spazio angusto della radura in cui sorgeva il minuscolo villaggio di contadini, poche baracche fatte di legno, terra secca e foglie, adagiate sul pendio, là dove si faceva più ripido e si avvicinava alla sommità del Mombacho.
In certi momenti, come quella sera, la visione anche di quella modesta distesa di bagliori radi e deformati, resi più incerti e mutevoli dai fremiti irregolari del suo corpo, gli procurava ancora un senso di tenue, ma irrimediabile malinconia
A fatica Padre Gilberto percorse a ritroso il breve tragitto compiuto poco prima e tornò ad adagiarsi sull'amaca dove trascorreva gran parte delle giornate, disteso sul fianco sinistro, così da poter guardare di tanto in tanto il panorama ristretto racchiuso dalla cornice della finestra.
Si coprì con la pesante coperta di lana ruvida e grezza e riprese il mozzicone di sigaro posato poco prima sul piatto scheggiato che usava come posacenere. Lo ravvivò con un paio di tirate lunghe e lente, osservando la brace allargarsi rapidamente sulla punta, al di sotto della poca cenere bianca rimasta quando l'aveva scosso delicatamente prima di scendere dal suo giaciglio per guardare dalla finestra.
Per qualche istante ripensò ai sigari grossolani e mediocri che aveva fumato all'epoca del suo arrivo, ben diversi da quelli del presente, tanto più belli e ricchi di aromi e di vigore.
All’inizio degli anni 80 i produttori avevano lavorato in modo primitivo: quasi tutti contadini che avevano coltivato piante di modesta qualità in maniera arcaica e avevano riservato non meno scarsa cura alla fermentazione e alla maturazione delle foglie.
Allora, appena arrivato, Padre Gilberto aveva abitato in città e aveva considerato temporaneo il suo soggiorno nella piccola diocesi nicaraguense. E tale aveva sperato che sarebbe stato anche il consumo dei sigari aspri e sghembi.
Allora lo aveva considerato un passaggio nella carriera ecclesiastica, scelta a vent'anni, quando il cuore gli si era gelato nel petto per una delusione d'amore e il seminario gli era parso preferibile all'accademia militare verso la quale lo avrebbe indirizzato lo zio omonimo, colonnello di cavalleria, che aveva riversato su di lui le speranze frustrate dal ventre sterile della moglie.
Una divisa era parsa il solo abito in cui avvolgere quel freddo corpo morto che gli aveva lasciato Leonora. E l'avrebbe indossata comunque, anche se fosse rimasto indifferente alle prospettive di gloria che, per entrambe le alternative, gli erano state indicate in famiglia. Riusciva ancora a sorridere le rare volte in cui gli accadeva di ripensare a se stesso nei giorni della decisione, quando si era ritrovato a paragonarsi a Gertrude.
Poi il suo sguardo si era posato su Amparo, figlia di un contadino i cui sigari Padre Gilberto aveva imparato a prediligere tra tutti gli altri. E mentre la sua mente si era smarrita e il suo corpo si era riscaldato, il paese era stato travolto dalla guerra tra Sandinisti e Contras.
Amparo, neppure ventenne, si era unita al FSLN e lui aveva deciso di seguirla, per non rinunciare alle promesse di quegli occhi neri e dolci e di quel nome che assicurava protezione. Tra le sue gambe aveva cercato Leonora, ma aveva ritrovato se stesso e ottenuto risposte a domande che non si era posto e perduto Padre Gilberto.
Alla fine della guerra si era ritrovato senza Amparo, morta proprio in uno degli ultimi combattimenti, e privo anche del rifugio della tonaca, non già perché qualcuno si fosse preso la briga di ridurlo allo stato laicale, ma perché aveva capito che le uniformi non servono a chi le indossa e lui aveva deciso di non indossarne mai più nessuna.
Aveva abbandonato gli uomini e le donne con cui lui e Amparo avevano diviso otto anni di vita e, senza neppure festeggiare la vittoria nella capitale, era tornato a Granada. Per poche settimane aveva provato a vivere con la famiglia della sua compagna, poi, una mattina aveva raccolto le sue poche cose e si era diretto verso il vulcano, arrampicando senza fretta fino a raggiungere la cima.
Aveva dormito sulla vetta diverse notti, lasciandosi inondare dalla pioggia di maggio, sperando che lavasse via la scorza da cui si era sentito avvolgere nel momento in cui l’ultimo fiotto di sangue era sgorgato dalla ferita che aveva ucciso Amparo. Si era risvegliato ogni mattina sentendo quell’involucro più spesso e opprimente.
Dalla vetta era sceso dopo oltre venti giorni, quando aveva deciso di raggiungere il piccolo villaggio accanto al quale era passato durante l’ascensione, l’unica destinazione concepibile per il suo animo inaridito. Gli abitanti lo avevano accolto senza stupore, quasi con indifferenza, ma lo avevano aiutato a costruire la baracca in cui aveva deciso di confinarsi e si erano rifiutati, suo malgrado, che pretendesse anche da loro di essere dimenticato.
Gli anni erano passati, alcuni libri si erano accumulati sugli scaffali che lui stesso aveva costruito e nelle due pentole di coccio aveva cucinato le verdure coltivate nell’orto e la carne dei polli e dei conigli allevati nei due piccoli recinti accanto alla baracca e quello che, di tanto in tanto e con inspiegabile generosità, gli veniva donato, come i sigari.
Pian piano la pace era scivolata sotto l’involucro, diffondendosi quasi completamente dentro di lui.

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